Michela Murgia se n'è andata a causa di un tumore annunciato qualche mese fa in un'intervista al Corriere della Sera rilasciata ad Aldo Cazzulo. Da quel momento, la sua battaglia contro la malattia è diventata il centro degli incontri e delle interviste fatte fino a qualche giorno fa, prima dell'aggravarsi del suo stato. Una scelta, quella di rendere pubblica la malattia, che le ha permesso, secondo lo scrittore Massimiliano Parente, di produrre il suo più grande capolavoro. Il motivo? Tutti noi siamo terrorizzati dalla morte.
Ve la dico tutta qui: il capolavoro della Murgia è stato la sua morte, perché di opere non ce ne sono, dopo una vita passata da attivista e ben accolta dai media e dal popolino femminista e dai salotti mediatici, il presenzialismo di presentazioni di se stessa come martire del sistema che la accoglieva a braccia aperte e mani giunte perché innocua, perché alla fine Ave Mary (titolo di un suo libro), e ora a maggior ragione, a maggior superstizione. Così tutti si genuflettono non di fronte alla scrittrice, perché poco c’era da genuflettersi (tanto nessuno legge, tutti scrivono) ma al rito apotropaico verso un tumore che stronca una donna di cinquant’anni, hai visto mai succedesse a me? L’attivista che ha danneggiato non poco la causa per la quale credeva di battersi, essendo anzitutto credente, e conciliare la religione con la famiglia queer è difficile, è come conciliare l’ebraismo con il nazismo, ma chi ci fa caso. Tant’è che, in assenza di letteratura, il funerale è diventato una messa cantata e un pellegrinaggio di esibizionismo di chi non ha mai letto un suo libro: chi l’ha incontrata e ricorda le sue parole, chi l’ha intervistata per l’ultima volta, chi l’ha abbracciata, da Cazzullo a Emma Marrone a Caterina Balivo, tutti e tutte a rendere omaggio alla santa, il miracolo su Instagram. Gente che non ha mai aperto un libro e teme la morte e resta stupita e instupidita dal coraggio di Michela, senza bisogno di rimuovere la caterva di stronzate dette e scritte perché i cervelli sono salotti arredati da sinapsi di ipocrisia, per lavarsi la coscienza in un paese clericale, anzi mi sorprende non venga imbalsamata e portata in processione. Perché è la morte che spaventa, è la morte esibita consapevolmente e ammetto coerentemente, da credente qual era la Murgia, con spettacolare coraggio e allegria (dovrebbero viverla così tutti i credenti, lasciando a noi, con una vita sola, le cure per vivere qualche anno di più) con una vita stroncata troppo presto da una malattia che lei ha definito “dovuta alla sua complessità” (sic), una morte uguale a tante e tanti altri sconosciuti negli ospedali nella medesima condizione, ma senza aver avuto il vantaggio di una vita sotto i riflettori più che a produrre letteratura (“non mi interessa la letteratura, mi interessa la politica”). Una morte vista come eroica perché gioiosa, da vera cristiana, con gli omaggi di chi vuole vampirizzarle il gesto, associarsi perché porta bene, come toccare ferro. In libreria le Tre ciotole andranno a ruba, mentre un caso analogo ma opposto, quello sì di un grande intellettuale, Christopher Hitchens, che da liberale si batté contro ogni religione e quindi contro ogni dogma inventato di famiglie tradizionali, un uomo senza chiese e senza benedizioni primitive, un racconto della sua morte per cancro scritto in diretta e senza consolazioni, senza speranze, senza superstizioni medievali, quel racconto crudo perché reale, biologico, fatto di parole e carne e coscienza moderna, quel libro intitolato Mortalità, in libreria non lo troverete, tradotto e subito fuori catalogo. Perché siamo in Italia, il paese di Michela Murgia, di Chiara Valerio, di Salvini che bacia i crocifissi, di Chiara Ferragni con il crocifisso di diamanti al collo, di D’aria Bignardi, anche lei grande scrittrice, che mentre la Santa moriva guardava le stelle cadenti con un bambino che ne ha viste tre ma lei neppure una, un segno, un presagio mandato dal cielo. Il sottoscritto potete tranquillamente insultarlo, non sono scalfibile, non sono una vittima, non vado in televisione perché non cerco visibilità ma invisibilità, esisto solo nelle mie opere che per contratto neppure presento, scrivetemi quello che volete, come persona non esisto, non sono mai esistito, ma vi faccio il favore di darvi un capro espiatorio, insultatemi pure tra una preghiera e l’altra, tanto la vita fa schifo lo stesso, con me o senza di me, con voi un po’ di più ma almeno vi fate vedere dove potete, alla fine è uguale, della mediocrità niente resterà.