Mi si svela la pagina biblica di Qoèlet, non è mai una coincidenza con i testi sacri. Rifletto sul luccicante trompe l’oeil chiamato: Chiara Ferragni. Su di lei precipita la rifrazione del mondo accecato dai neon, da carillon brillanti che istigano dalla cima dei grattacieli un qualche faro morale, piuttosto forgiato nella morale direi, illividita o come sopravvissuta, la carogna di certi quadri di Otto Dix, potremmo definirla la coscienza nella contemporaneità che ammenda il vacuo alla fonte di una probabile futilità necessaria. Chiara e la sua vita, che condanna in prima istanza il giudizio, supera le fasi articolate da scranni di contesa, imperialisti, marxisti, socialisti, dualismi di una storia barbogia e impegnata che non ci riguarda più; figurarsi usare parolone come: lotta di classe; superamento dell’ipocrisia borghese; smacco al proletariato. Una faccenda che concentra più che altro intermittenze fatue; cristallerie; colori accecanti che restituiscano tutta la maestosità cinerina degli anni ’80, ad esempio, con certi videoclip dei The Power Station, sul piano sequenza, brani come Some like it hot. Fosforescenze violentissime, veloci, destinate a consumarsi nella brutalità del tempo rapido che non consegna profezie, a cui non chiedere udienza. Eccovi dinanzi l’impero glissato, costruito dall’imprenditrice al secolo l’influencer con 30 milioni di follower al soldo di un paio di infradito. I follower. O di una piscina a Ibiza su cui alcune piattaforme del negligee giornalistico dedicano circostanziate aperture di pagina. Nel gergo. Non chiediamo udienza al tempo, oggi, né invochiamo un sinedrio che indichi il reo e il correo, il primate di una involuzione, la caduta della Repubblica di Weimar. Per dire. I giorni di fine impero, sopra cui mani bianchissime su lenzuola funeree intessano merletti di strass. La Ferragni. Il clan Ferragni. Fedez. Leone. Vittoria. Paradigmi. Non più il nome che ordina le cose, l’universo e i suoi dimoranti. Patronimici, estensioni di forme gregarie e posticce di sfavillanti universi concentrazionari dove piomba la nostra capacità di desiderare, maldestra senz’altro, priva dell’adeguato dress code, acconciata come si può, come si deve. Al modo di una considerazione dell’esistenza svenevole, colta dal deliquio manierato di quel che non è ma che diventa, ipso facto, l’unico parametro dell’esatto contrario.
La casa a Ibizia. Il protocollo replica tutte le mondanità accorse nei secoli dei secoli a confermare l’eventuale assunto per cui elezione è selezione ma anche la noia nutrita dei sette peccati capitali. Una villa. Una piscina. Il mega wall. La perfezione. L’idea della perfezione che rimanda il pixel e che torna a noi auditori nel mulinello della compulsività mortificata, altrimenti: aberrazione. Sull’aberrazione intesa come il fenomeno dell’inganno ottico si può edificare un impero. Chiara propone modelli di felicità, una successione, con profili definiti, semplici a dire il vero, ma inarrivabili. Non edificazioni di mondi speciosi di bestie rare. Mondi facili, dai confini immodificabili, che tuttavia scavano fossati, intramezzo con l’inutile budello, perlopiù diseguale e inelegante, budello o bubbone che attiene agli altri cioè noi. C’è un personaggio di Tropico del Cancro, vive a Sulpice, laido e osceno, è stanco dice, “stanco di starsene seduto sul sedere tutto il giorno, della tappezzeria rossa”. Il budello inutile e borghese o ancor peggio il sottoproletario senza un briciolo di sussulto o passione. La sudicia modestia ha un antidoto nella stella effimera, Ferragni &Co, quotata in borsa. A noi, l’amaro nutrimento.