Teresa Martini, ex Sem e prossima Solferino, anima di “Via Cadore 33”, mi diceva: “Michela mi ha detto di avvertirla: se in via Cadore ci sei tu, lei non viene”. La cosa mi ha sempre fatto ridere molto, e di cuore. Perché ero io quello terrorizzato da Michela Murgia, il contrario mi sembrava impossibile. Ed è per questo motivo che, quando ho saputo della sua malattia, sono stato colto da una tenerezza tanto inaspettata quanto vera e profonda. Mi sembrava la Monster Ripper (in italiano conosciuta come Monster Lippa, lottatrice di wrestler, disciplina sportiva-spettacolare che negli anni Ottanta chiamavamo “catch”) della letteratura. La immaginavo sollevare i miei cento e passa chili sopra la testa e lanciarmi fuori dal ring: che non mi volesse incontrare era strano e dolce, forse temeva che saremmo andati d’accordo, oppure che sarei teatralmente scappato urlando (la seconda ipotesi è quella più probabile). E però, tutte le Erinni neo o etero femministe sono acqua di rosa al suo confronto. Non sono mai stato d’accordo su una virgola scritta da Michela, ma scriveva bene ed era lei la “nemica”. Che mi e ci mancherà tantissimo: oggi si fa tanto parlare del “dissing” nella musica, ma il “dissing” tra scrittori è molto più antico e molto più interessante, solo che non si chiama “dissing” e non ha lo stesso successo.
Per Michela la letteratura non era solo “politica”, non era solo “pubblica”, era “comunitaria”. Le sue battaglie per la famiglia allargata in senso “queer” erano il logico e conseguente sviluppo della sua maniera di vivere la scrittura. L’ho vista bambina capricciosa, da quando aveva scoperto la malattia, al centro di una comunità della quale era orgogliosa. Aveva virato verso la narrazione di un “guru”, con tutto quello che questa parola comporta. La sua vanità era “larger than life” così come deve essere la buona letteratura. Essa debordava, esondava. La prospettiva della morte l’aveva resa luminosa di una teoria del gruppo inattaccabile. Se ci si pensa a posteriori è stata la sua morte perfetta: le ha dato il tempo di diventare ciò a cui aspirava; il centro di un mondo. Come una bambina.
Niente di più lontano da me che probabilmente morirò solo e impiccato a un albero mentre cani e gatti mi guarderanno basiti chiedendosi: “e la pappa?”. (Ma il suicidio è quella cosa che va procrastinata fino alla morte del sole).
Sono due modi diversi di intendere la scrittura, campo dove non esiste chi ha ragione e chi no, anche se i pensieri devono scontrarsi e Michela era una maestra dello scontro, del “nemico” in senso schmittiano (la dicotomia del ‘politico’ – con la monovirgoletta, così come Carl Schmitt volle nel titolo del suo capolavoro “Le categorie del ‘politico’” – amico-nemico).
La Murgia era fondamentalmente una fascista dell’antifascismo. Si credeva “migliore”. E forse questo controsenso non l’ha fatta essere efficace come avrebbe meritato. Ma tutti i bambini sono “fascisti” in qualche maniera: sono loro al centro del mondo ed è anche giusto che sia così. Forse per questo l’ho sempre guardata con un misto di terrore e tenerezza (non è la maniera con la quale si guardano i bambini?). La sua scomparsa ci lascia senza “la” nemica. Dovremo prendercela con le sue pallide imitazioni e questo un po’ ci fa passare la voglia e ci svuota e ci intristisce. Così come ci intristisce la scomparsa di una bambina capricciosa e geniale.
Addio “bimba” nostra. Non scassare troppo la minchia a Dio perché lo abbiamo immaginato “maschio”. Probabilmente non lo è.