Se n’è andata prima di quanto tutti si aspettassero. Michela Murgia aveva detto qualche mese, nessuno le aveva creduto. La malattia, certo, ma talvolta si combatte, si può combattere. Stavolta no. Una scrittrice che se ne va a 51 anni non può che rappresentare una tragedia, quasi una sconfitta nel caso di Murgia. Una sconfitta non dei medici e nemmeno sua. Ma di tutti. Nonostante gli annunci siamo andati avanti, fino alla fine, come se niente fosse. La tragedia è qui, arrivare a una morte di cui si sa facendo finta di nulla. L’ultima polemica è stata per il matrimonio in bianco, un gesto tradizionale servito per garantire alla sua famiglia allargata tutto quello che spetta dopo un lutto a una famiglia vera e propria; ma c’erano altri modi, quindi non possiamo limitarci a questo. È stata l’ultima stoccata contro un sistema all’interno del quale Murgia ha saputo costruire la sua immagine di eterna antagonista, a volte provocatrice insaziabile.
I messaggi contro di lei, le critiche uscite anche qui su MOW, sembrano davvero invecchiati male. Non si è stati capaci, forse, di farle sconti neanche alla fine, perché ha saputo nei modi e nella lingua dissimulare il dramma di una malattia che ti annulla ma che non ha annullato lei. Lei è sempre restata Michela Murgia, senza mai rinnegare – e perché avrebbe dovuto? Si chiede qualcuno – nulla, né la sua verve, né le sue parole forti. Michela Murgia, alla fine, è rimasta la stessa che disse che maschi erano tutti come i “figli dei mafiosi”. Chi si spinge tanto in là è difficile sappia tornare indietro. Ed è anche giusto che, con il tempo che le restava, abbia scelto di non sprecare energie chiedendo scusa a milioni di sconosciuti, anonimi che altro non sarebbero stati, ormai, che la parte del tavolo da ping pong tirata su per giocare da soli. Ha preferito la politica senza contraddittorio degli ultimi discorsi, come quello al Salone del libro, come le interviste a tu per tu di Vanity Fair. E ha preferito il legame, concentrandosi sulla sua famiglia queer, sulle stranezze, cioè, che i legami comportano. In questo è stata una grande donna, dotata del coraggio degli essere umani, non dei personaggi. Una donna che non ha avuto la fortuna, nonostante lei lo abbia sempre considerato una maledizione e dunque poco male, di un amore esclusivo, fatto solo per lei, su misura (perché "senza misura").
Non è neanche tempo di bilanci, non lo sarà per, diciamo, cinquant’anni. Ma il rischio che non si arriverà tanto lontano resta. Il rispetto che lei ha portato alla sua figura pubblica è lo stesso che dobbiamo mantenere noi, ora che non c’è più, senza permetterci nessuna vigliaccheria mediatica di comodo. Soffrire in silenzio, umanamente, per una morte prematura, non può voler dire evitare di fare ciò che lei stessa, prima di altri, ha sempre fatto: essere franca. Prima della svolta saggistica Michela Murgia ha scritto bei romanzi, tra cui quel caso letterario che fu Accabadora. Tutti pubblicati da Einaudi, casa editrice dei potenti che la accolsero perché capace, in fondo, di riconoscere il potere e talvolta persino il potere della scrittura. Difficile dire se sia stato questo il caso. Neanche le vicende di Soreni, il paesino sardo di Maria e “mamma” Tzia (una mamma queer?), possono davvero cambiare le cose. Di quel tipo di letteratura, che sopravvive, in Italia, non c’è quasi traccia. Michela Murgia, che ha sentito la necessità inspiegabile di abbottonare i suoi romanzi con dei saggi, ha stretto troppo la giacca, tenendosi l’ispirazione per sé, almeno guardando all'ultimo decennio.
Eppure ha mantenuto il suo volto e la sua popolarità intatti grazie a titoli che hanno fatto polemica: Istruzioni per diventare fascisti, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più. Infine God Save the Queer, un tentativo di far pace con la propria fede. Un libro da cui traspare un po’ l’atteggiamento letterario di Michela Murgia, la tensione titanica di una scrittrice che alla fine credeva che, tra lei e la sua fede, fosse la sua fede ad aver torto. Una scrittrice, in altre parole, che non sbaglia mai. Mentre i grandi crollano, “vinti dal tuono” direbbe il Dante del Paradiso, lei è stata leone indomabile caratterialmente, ma penna meno aggressiva di quanto abbia mai sperato. È giusto dirlo proprio ora, prima delle rassegne e le pubblicazioni in serie delle sue opere. Ora che siamo a metà di quel percorso di canonizzazione che fanno le TV e i colleghi con la necessità di rendere classico ciò che classico non è. Persino i più alternativi e i più tradizionali, in fondo, cercano la propria storia, chiedono il proprio periodo aureo. E Michela Murgia potrebbe diventare questo per tanti, un classico vissuto alle soglie di un’epoca che i suoi compagni di strada finiranno per indicare come oscurantista (la destra al governo, gli attacchi ai diritti e così via). Ma, se non si possono fare bilanci, non si può nemmeno tirare la speranza in modo innaturale, oltre il limite elastico dell’onestà intellettuale. Classico, Michela Murgia, non ha provato a esserlo mai.
Bisogna dirlo perché ha ragione Aldo Cazzulo quando, in riferimento alla loro intervista in cui annunciò di essere malate, scrive: “È stato un atto politico”. Chi abdica al ruolo di scrittore, di irregolare, per diventare politico, perde qualcosa. Perde qualcosa dello scrittore, tra cui le tempistiche, in un modo o nell’altro non essere quasi mai dalla parte del vincitore. Lei è arrivata alla fine della sua vita e aveva vinto. Il potere editoriale, la popolarità, la possibilità di dire sempre, in ogni occasione, quello che pensava. È quello che spetta ai grandi dopo che se ne sono andati. Spetta loro attraverso i libri. Arrivarci prima del tempo è quasi barare se non lo si ammette da subito, se non si dice: io sono stata una scrittrice e non lo sono più.