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È morto Cormac McCarthy, lo scrittore biblico e selvaggio più grande del nostro tempo

  • di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

14 giugno 2023

È morto Cormac McCarthy, lo scrittore biblico e selvaggio più grande del nostro tempo
Lo scrittore più grande della nostra epoca, con ogni probabilità, è stato Cormac McCarthy. Isolato, faceva il bagno nel lago perché non ha mai voluto avere un lavoro fisso, vendeva 5mila copia prima dell’intervista del New York Times che gli cambiò la vita (e che concesse a fatica, odiando la notorietà). Uno scrittore conservatore, apocalittico, fuori da ogni schema (religioso, letterario, politico). È appena uscito il suo ultimo romanzo, Il passeggero, e a settembre Einaudi pubblicherà la seconda parte, Stella Maris. L’eredità profetica di un uomo che ha vissuto ai limiti del tempo

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

Richard B. Woodward è morto alla fine di questo aprile. Un giornalista culturale raffinato dotato di quell’intuito che forse solo in America può diventare il gancio per avere successo, per avere davvero una carriera di cui potersi vantare. Il fiuto. A Woodward capitò una di quelle interviste che ogni giornalista vorrebbe fare. È lo scacco matto ai rischi di fare questo mestiere, allo scetticismo dei più. Lui già scriveva per il New York Times ma un pezzo così non l'aveva mai fatto. Nel 1992 riuscirà a intervistare Cormac McCarthy. Lo scrittore eremita si trovava a Mesilla, Nuovo Messico. Gli parlerà dei serpenti a sonagli, del loro veleno, della schiavitù del progressismo senza anima, il nostro veleno: “L’idea che la specie possa essere migliorata, in qualche modo, che tutti possano vivere in armonia, mi pare pericolosa. Chi è afflitto da questa nozione è il primo a rinunciare alla propria anima, alla propria libertà. Il desiderio di percorrere questa via ti rende schiavo, rende vacua la tua esistenza”.

Cormac McCarthy è morto il 13 giugno 2023, pochi mesi dopo Woodward, dopo l’uscita del suo ultimo grande romanzo, Il passeggero (Einaudi 2023), un capolavoro cosmogonico, perché prima di tutto parla di morte, mistero, sparizione, amore, e lo fa in modo frammentario, con i concetti sparsi nel vuoto, come i frammenti di una galassia in formazione. La scrittura si condensa, il mistero si agglomera. Dopotutto McCarthy ha fatto del silenzio, della violenza della natura e dell’uomo la sua stessa vita. Fin da Meridiano di sangue (1985), il suo quinto romanzo arrivato in Italia alla fine degli anni ‘90, sulla scorta del successo di Cavalli selvaggi e dell’intervista di Woodward. E cos’è più indecifrabile dei segni che la natura protegge dietro al veleno di un serpente del Mojave, o dietro a una pallottola in fronte, o – ancora – un JetStar intatto sul fondale del Golfo del Messico. L’Apocalisse precede di poco l’avvento del Regno dei Cieli, ma soprattutto ne anticipa il senso. Tanto è feroce la fine, tanto è feroce McCarthy quando la affronta.

Cormac McCarthy
Cormac McCarthy

In questo senso McCarthy è lo scrittore biblico per antonomasia, che non fa sconti alla visione del mondo che il suo tempo incarna. Che ne prefigura un’altra, attraverso la violenza. Sempre nell’intervista del ’92: “Non esiste vita senza spargimento di sangue”. E sia il sangue che la vita gli interessano di più della scrittura. Per questo è anche lo scrittore più selvaggio della letteratura contemporanea. La sua lingua è mossa da quello stesso inconscio antichissimo, primordiale, che muove il linguaggio nella specie umana. Per dirla con le parole di un suo breve saggio, Il problema di Kekulé: “L’inconscio è una macchina per manovrare un animale”. È lui a manovrarci e la scrittura non fa che descrivere la punta dell’iceberg, quello a cui si arriva e da cui si riparte. Ma non è niente di più che un tentativo fallito di spiegarsi, anzi: una spiegazione abortita sul nascere. Perché è l’inconscio (più bravo in matematica dei matematici per McCarthy) che guida e sbanda e vira e uccide e sopravvive e non sa porsi domande su se stesso, forse bluffa. 

Cormac McCarthy
Cormac McCarthy

Che vi sia un Dio o meno a McCarthy poco importa. Nei suoi romanzi Dio c’è sempre. È un Dio che ricorda la natura di Leopardi e il Re veterotestamentario, ha un’eco pagana perché è suscettibile, ma è romantico, antiprometeico, nemico della scienza perché primo tra gli scienziati. Anche McCarthy potrebbe identificarsi con questa descrizione. Antico e più moderno degli scientisti, violento e feroce ma sapiente, aperto al miracolo (come scrive proprio ne Il passeggero) ma realista fino all’osso. Tanto realista da essere, per alcuni, il vero grande scrittore conservatore della nostra epoca, cioè il vero grande scrittore e basta. Più di Houellebecq, sicuramente slegato dalle atmosfere e i colori continentali che danno a noia. McCarthy, pellegrino nel deserto, strappa a morsi la testa dei serpenti da cui non riesce a tenersi lontano, i serpenti della moda, della fama, della modernità. E lo fa da scrittore che alla scrittura preferisce mille altre cose. Lo scrittore imponente la cui materia prima è la vita e la morte, al di là dei tempi, in una cronologia apocalittica che, come Newton fece per l’Apocalisse e i libri dei profeti, speriamo gli scienziati sappiano sfruttare. Perché forse soltanto alla scienza sarà possibile una mostruosità tanto monumentale e onnicomprensiva come l’opera di McCarthy.

Cormac McCarthy
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