Carlos Ruiz Zafòn una volta ha scritto: «Mi interesso di tutto. Non vedo perché Borges non possa funzionare accanto a Neil Gaiman, o Stephen King non possa essere mescolato a Balzac. È solo narrazione; è un modo differente di usare codici e immagini e parole e suoni». Nessuna frase potrebbe essere più vera in riferimento al Re della letteratura di genere, Stephen King. Non si contano più i titoli usciti dalla mente di uno degli autori più prolifici in attività. È più letto di Tolkien e di Roald Dahl, e supera Paolo Coelho. Di lui si è detto di tutto (e il peggio). Basti pensare ad Harold Bloom, il barone dei critici americani, che lo criticava per la poca originalità e per lo scrivere frase per frase, paragrafo dopo paragrafo, imputandogli una scarsa visione d’insieme e la mancanza di una progettualità complessa. Tuttavia Stephen King ha in qualche modo plasmato l’immaginario moderno, non solo attraverso la narrativa, ma anche attraverso il cinema, che ha preso a piene mani dal suo lavoro. Per citare solo alcuni dei registi che hanno scelto un soggetto del Re per le loro pellicole, basti ricordare Brian De Palma, Stanley Kubrick, Davd Cronenberg e John Carpenter. Il 15 novembre scorso è uscito in Italia Stephen King. La guida definitiva al Re (Mondadori) e noi abbiamo chiesto a sei grandi scrittori italiani di dirci cosa pensano dell’autore americano. In certi contesti la letteratura agisce da solvente per la frustrazione, e così la critica, in barba all’onestà intellettuale, preferisce affossare gli autori che vendono e, ancora di più, gli autori che vendono spesso scrivendo letteratura di genere, come romanzi horror, gialli e thriller. Ma se si vuole arrivare al cuore della scrittura e della narrativa, perché non licenziare per una volta i critic(on)i e parlare con chi scrive davvero?
Piergiorgio Pulixi, allievo di Massimo Carlotto, autore tra l’altro della serie I canti del male, scrittore presente nelle più importanti collane di thriller e noir italiane, è un geometra del genere, l’architetto di trame euclidee ma profondamente umane. Il suo giudizio su King è inequivocabile: «Devo quasi tutto a Stephen King. È stato il primo autore che ho davvero amato e che mi ha permesso a sua volta di incontrare tanti altri autori e tante altre storie. Di certo se non avessi letto On writing – il suo saggio sulla scrittura – non avrei mai fatto questo mestiere. Ma ciò di cui gli sono ancora più debitore è l’aver creato un universo narrativo che per me è diventato casa. Provo quasi nostalgia di luoghi come Derry, Castle Rock, e del Maine che lui ha reso così vivido in decine e decine di romanzi, tanto che per me è come se fosse un luogo in cui ho vissuto per davvero. È questo uno dei suoi doni più grandi: teletrasportarti in un paese e farti vivere splendide avventure insieme ai suoi personaggi. La sua non è mai una lettura passiva, ma si diventa parte in causa del romanzo: si vive e si combatte con i suoi personaggi, di cui ti senti un’estensione. Sono pochi gli autori che hanno questo dono. Non vedo l’ora di tuffarmi in questa nuova biografia per comprendere ancora meglio quanto la realtà abbia ispirato la finzione, e viceversa».
Alberto Cola, premio Urania, premio Lovercraft, premio Alien, vincitore del Trofeo RiLL, autore di vari romanzi per ragazzi, racconti di fantascienza e un noir, La notte apparente, in cui la neve crea l’effetto bolla per una delle ambientazioni più complesse e claustrofobiche da gestire in un romanzo, la casa, ci ricorda che King, forse, è già un classico. «King è un luna park. Criticabile quanto si vuole, non sarà Poe o Lovecraft, ma è capace di farti viaggiare. E, in fin dei conti, cosa chiediamo davvero a un autore? Il suo primo romanzo che lessi fu Le notti di Salem, e da lì iniziò il mio viaggio. Ho amato moltissimo alcuni suoi libri, altri non li ho terminati; ci sta. A livello “visionario” e quanto a talento creativo ho sempre preferito Clive Barker ma, piaccia o no, King ha rappresentato qualcosa di unico per il genere, a tutti i livelli. Molti esteti della letteratura “alta” l’hanno snobbato e continueranno a farlo, ma faccio mie le parole del critico letterario, nonché autore, Leslie Fiedler che, chiacchierando con una giornalista, disse: “Senti, siamo sinceri, l’uno con l’altra: quando tutti noi saremo dimenticati, la gente ricorderà ancora Stephen King”».
Lucio Besana è uno scrittore e uno sceneggiatore unico in Italia. Autore degli script dei due film horror italiani più importanti degli ultimi anni, The Nest e A Classical Horror Story, è uscito l’anno scorso con una raccolta di racconti weird, Storia della serie Cremisi, in una parola: abisso. Lui guarda al messaggio di It e all’effetto boomerang della scrittura di King, in grado di tenerti nell’età senza tempo propria di ogni vero lettore. «Ho letto It quando avevo undici anni, l'età dei Perdenti. Si può dire che mi ha reso più adulto; le sue parole mi hanno insegnato come guardare e decifrare quel mondo troppo grande che ancora non capivo. Non parla di un clown che mangia i bambini, parla di come i bambini riescono a battere il clown: e questo fa tutta la differenza che serve. Adesso che ho quarant'anni, invece, King ha la capacità di farmi sentire ancora bambino: riesce a prendere l'evento o l'azione più semplice e renderla speciale, quasi magica; riesce a descriverla come se la vedessi per la prima volta».
Raul Montanari non ha bisogno di presentazioni. Nel 2012 vince l’Ambrogino d’oro della città di Milano, tanto è riconosciuto il suo contributo. Ha tradotto McCarthy, Wilde, Edgar Allan Poe, Frazer, Philip Roth e dirige da oltre vent’anni una scuola di scrittura nel capoluogo lombardo. Scava fino all’osso delle contraddizioni quel L’esistenza di Dio, che indaga il doppio destino di chi si vede ricevere riconoscenza. Di King ricorda l’effetto sismico sul mondo della letteratura paludata: «Faccio fatica a farmi venire in mente un autore che, come King, col tempo abbia messo d’accordo tutti: lettori, colleghi e critici. King è una lettura facile. La sua scrittura ha una fruibilità altissima e le sue storie sono basate su nuclei emotivi essenziali. Perfino le sue trame sono semplici, lineari, e lui stesso ha dichiarato più volte che non prende nessun appunto prima di scrivere un romanzo ma si limita a muovere da una ipotesi narrativa di partenza e svilupparla: “Cosa succederebbe se...?". E da lì il viaggio parte. Un viaggio in cui narratore e lettore sono sulla stessa barca. Infatti Stephen King ha dato una picconata decisiva al trono marmoreo e polveroso su cui era installata la figura dello scrittore, l’uomo toccato dal dono divino del talento. Il talento è una cosa comunissima, ha detto più volte, che si vende a chili come il sale. Quello che fa la differenza, nella scrittura come in qualsiasi campo, è la determinazione, la forza di volontà nel perseguire un obiettivo. In una parola: il lavoro. Come dargli torto?
E poi Seba Pezzani, traduttore tra gli altri di Joe Lansdale, definito lo “Stephen King del Texas Orientale” (al quale l’autore risponde però che semmai è il Re a essere il “Joe Lansdale del Maine”). E non solo, perché Pezzani è anche un giornalista e un musicista, e ha orecchio per lo stile del Re: «Di Stephen King ho letto soltanto un romanzo, La zona morta, mentre avevo l'influenza ed ero costretto a letto. Peraltro, avevo già visto lo splendido film di David Cronenberg che ne era stato tratto. Eppure, nonostante tutto, l'esperienza della lettura è stata sorprendentemente gratificante. Malgrado il film sia molto vicino al romanzo, leggerlo mi ha trasmesso tutta la grandezza stilistica e l'incredibile creatività di questo autore. Mi riprometto di accostarmi ad altri suoi romanzi, ma ancora non l'ho fatto, forse spaventato dalla loro lunghezza media. Prima o poi, ci arriverò, anche perché un bel libro non può per definizione essere troppo lungo».
Marco de Franchi è autore di quello che Gian Paolo Serino ha definito, senza mezzi termini, «un cazzo di capolavoro. […] Uno di quei libri che ti sequestrano senza rapinarti». Si tratta de La condanna dei viventi, che scava nelle viscere degli incubi. A chi potevamo chiedere di parlarci di King, se non a lui. «La banalità del bello. Questo è per noi Stephen King. Perché è banale citarlo come l'autore a cui ci siamo ispirati quando abbiamo deciso di essere degli scrittori. Perché è banale richiamarlo quando ci addentriamo nelle pieghe più oscure dell'animo umano. Perché è banale dire che è una vetta irraggiungibile eppure così stimolante. È banale, ma così fottutamente vero».