Gazzelle è in gara a Sanremo 2024. Una notizia. Una notizia che ci rasserena, a suo modo. Adesso ci arrivo. Ieri sera è stata a cena a casa nostra una amica di Ancona. È qui a Milano perché è professoressa all’Università ed è venuta in città per consultare un archivio nella sede di una fondazione per certe sue ricerche. La nostra amica, amica di una vita, non ha lo smartphone. Non per questioni ideologiche, per intendersi non è una luddista, ma per certe sue idee riguardo lo stare in rete costantemente. Non è, ovviamente, neanche sui social. Il non avere uno smartphone, se ti trovi a muoverti in una città che non è la tua, se abiti in una grande città anche nella tua, comporta una serie di problematiche, tipo: come faccio ad andare a cena dei miei amici senza perdermi? Al telefono, la sera prima, spiegava a mia moglie che, guardando la stampata delle mappe, stampata di mappe trovate ovviamente online, non riusciva esattamente a capire quale strada dovesse fare una volta uscita dalla metropolitana. L’uscita della metropolitana giusta, confesso, gliela abbiamo detta noi ma, ad esempio, come arrivare alla metropolitana più vicina a dove stare, non conoscendo esattamente la zona del suo albergo, se l’è dovuta trovare da sola. Mia moglie c’è stata un po’ al telefono, e alla fine, quando è arrivata, ci ha detto che si è persa, andando sostanzialmente a provare tutte le traverse della piazza che su cui si affaccia la nostra via. Avrei voluto dirle di usare Google Maps, ma è un discorso che abbiamo affrontato tante volte e non mi piace imbarcarmi in battaglie perse. Se racconto questa storia, peraltro, è perché mi faccio forte del suo non essere in rete, altrimenti potrebbe anche fraintendere e pensare che io intenda in qualche modo prendermi gioco di lei. Tutt’altro. Voglio approfittare di questo aneddoto per dirvi che io, che nella vita mi sono trovato a muovermi in tante parti del mondo (un tempo lavoravo per riviste di viaggio), oggi come oggi senza Google Maps o un qualche navigatore non saprei proprio come muovermi. Pensateci. Arrivi in un posto e non hai idea di come arrivare da un’altra parte. Un tempo, credo, vado a memoria, ma è una di quelle memorie che, non interessanti, il nostro subconscio ha indubbiamente rimosso, si consultava il TuttoCittà, parlo di chi vive a Milano, le Guide Michelin, o si chiedeva a qualcuno. La leggenda che vuole gli uomini incapaci di farlo, forse per una questione di machismo, e le donne incapaci di consultare una mappa, hanno dato vita a gag e addirittura libri, penso a quello di Mark Leyner che cita l’episodio proprio nel titolo. Il fatto è che ci sono condizioni, anche del passato remoto, che ci sembrano impossibili, oggi, perché tendiamo a abituarci subito a certe condizioni, rimuovendo tutte le routine che affollavano le nostre esistenze ieri. Che so, un tempo giravamo senza telefono. Pensa te. Ecco, ieri, toh, l’altro ieri, per chi come me si occupa di musica, pensare a un futuro, ma anche a un presente, nel quale tutto non dovesse in qualche modo fare i conti con l’indie sembrava quasi impresa impossibile. Era tutto indie. Tutti cantautori che suonavano canzoni non troppo arrangiate, con strutture non troppo complesse ma molto orecchiabili, con testi che guardavano a una malinconica introspezione.
Gli artisti indie, tutti uomini o quasi, mi viene in mente giusto Maria Antonietta, per qualcuno anche Levante, dominavano le classifiche, si mangiavano la gavetta andando a conquistare alla velocità della luce locali sempre più grandi, avevano il plauso incondizionato della critica. Qualcuno provava a dire che in fondo era solo pop di nuova generazione. Dal parlare di indie si cominciò infatti a parlare di itPop, ma poco cambiava, l’indie o itPop regnava. Per questo gli artisti pop, specie quelli senza troppa personalità, hanno cominciato a guardare da quella parte, chiedendo canzoni, soprattutto, ma anche cercando collaborazioni, featuring. Era un modo per dimostrarsi sul pezzo, fingersi alla moda. Oggi parlare di indie è un po’ come parlare di ViaMichelin, il sito dal quale un tempo si andava per studiare un percorso che avremmo dovuto fare in auto, andando poi a stamparcelo nella speranza di capire se quella determinata strada che avevamo a destra era in effetti quella che dovevamo imboccare. Il cast del Festival della Canzone Italiana del 2024, la quinta diretta e condotta da Amadeus, uno che ha deciso di mimetizzarlo con le classifiche, arrivando poi a portare le classifiche dentro il Festival, o viceversa, ce lo dice in maniera abbastanza evidente. Ci sono artisti urban, rapper, un po’ di trap all’acqua di rose, ma a rappresentare quella che è stata la flotta dell’indie c’è un solo artista, Gazzelle. Perché questo repentino cambio di marcia, parlo delle mode, ha fatto sì in effetti che di tutto quel vociare lì rimanesse solo chi in effetti aveva qualcosa da dire, avesse una propria personalità definita, fosse cioè un artista, e non uno che simulava quel che girava intorno: Gazzelle è così. Nel presentarsi a Sanremo, un luogo che un tempo sarebbe stato impensabile per chi già dal nome del genere praticato faceva in qualche modo riferimento all’indipendenza. Certo, era già successo con il cosiddetto underground, o musica alternativa, penso in primis ai Subsonica, e a seguire gli altri, Bluvertigo, Afterhours, Marlene Kuntz. Gazzelle onora il palco che si troverà a calcare, presentandosi con una canzone pensata, evidentemente, per suonare bene con l’orchestra, una ballad molto alla Gazzelle, malinconica, esistenziale, sornionamente dolce.
Lo abbiamo incontrato, nella zona più hipster di Milano, il quartiere Isola, perché non l’avevo detto, ma l’era in cui l’indie era la colonna sonora delle nostre vite loro, gli hipster, si erano sentiti ringalluzziti dall’aver in qualche modo omologato ai propri gusti anche il resto del mondo. Mentre qualche artista proveniente dall’indie è giustamente rimasto, va detto, degli hipster troveranno traccia i nostri successori in qualche iscrizione rupestre, spariti come i dinosauri ai tempi delle ere glaciali. Gazzelle è in gara a Sanremo 2024, dicevo. Una notizia. Una notizia che ci rasserena, a suo modo. Un cantautore in mezzo a un mare di casse dritte. Uno che si scrive le canzoni senza ricorre a duecento firme, giusto la sua e di Federico Nardelli, producer che proprio dall’indie e con l’indie è partito per andare poi a conquistare in mainstream. Lui, Gazzelle, si presenta esattamente come lo abbiamo imparato a conoscere, parlo di chi lo ha imparato a conoscere. Immagino che il palco di Sanremo amplierà parecchio questo circolo, ci racconterà di andare lì anche per quello, per incrociare la casalinga di Voghera, occhiali da sole, capelli con frangetta, parka, no, parka no, che siamo al chiuso, comunque felpa con cappuccio, esattamente come me, una sorta di Liam Gallagher in salsa romana, l’aria tra il timido e lo scanzonato. Gazzelle, che in realtà si chiama Flavio, ci dice di essere andato al Festival per due motivi, uno privato e uno legato al suo mestiere. Quello privato è per uscire dalla sua comfort zone. Ci ha messo tanto a decidere di accettare di essere un cantautore (la parola cantautore è una parola chiave di questo pezzo, attenzione) e quando ormai ha creato in qualche modo delle certezze, passando dai concertini fatti nei pub, mentre ancora preparava i cappuccini al bar, all’ultimo fatto a Roma allo stadio, con ormai un pubblico che lo segue e lo appoggia, ecco arrivato il momento di rimettersi in discussione, di provare quella scossa ché altrimenti la sua vita noiosa, che fosse noiosa ce lo ha detto ovviamente lui (pensatelo tra virgolette, se vi aiuta), sarebbe ancora più noiosa. E questa è la faccenda privata. Quella pubblica è legata all’ambizione, e un cantautore timido che però ambisce a cantare davanti a milioni di spettatori è di suo già una sorta di anomalia, un voler far sentire la sua musica anche a chi non lo conosce. Per questo, dice, ha portato una canzone molto in linea col suo modo di fare musica, una canzone piccola, malinconica come lui è malinconico e senza accenni al cinismo, che lui è anche cinico. Una canzone, Tutto qui, che è appunto surreale già dal titolo: l’idea di racchiudere tutto in una canzone, ma che in realtà parla di amore e sull’amore, non necessariamente e esclusivamente tra due persone. Una canzone che lamenta l’impossibilità di vivere il passato dell’altro, condividendone i dolori passati, così da poter capire i futuri. Una canzone piccola, una ballad, che Flavio ha proposto ad Amadeus anche contro il parere di chi lo frequenta, “ma che ci vai a fare a Sanremo, mica ti serve…”, proposta insieme a una seconda alternativa, decisamente più paracula, che per fortuna Amadeus non ha scelto, dice. Come non è stata paracula la scelta di cantare Venditti, ma non il Venditti politico, quanto il Venditti che a sua volta ha cantato, per altro quarant’anni fa, una canzone che mette in scena le poche ore prima di un momento importante come un esame, ma presto destinato a essere messo in archivio, ché la vita ci mette davanti a prove assai più importanti e complicate.
La scelta di farla con Fulminacci, appunto, è quella di giocare in casa, con un amico, perché almeno non è dovuto star lì a giocare di cortesia, “la prego, scelga lei cosa cantare”. Venditti, del resto, è anche Roma, e anche Gazzelle è Roma. Un cenno, manco troppo fugace, all’augurarsi di presentare, perché quest’anno i cantanti dovranno tutti presentare un loro collega in gara, nelle sere di mercoledì e giovedì, un cenno all’augurarsi di presentare qualcuno di cui ha stima, perché non di tutti Gazzelle ha stima, parla di musica, ovviamente, molti neanche li conosce di persona. Quel che teme, in realtà, è il circo mediatico che circonda il Festival, compreso il gossip, lui che ha sempre tenuto la sua vita privata, appunto, privata. Le interviste, pure quelle teme. L’idea di andare a Sanremo con una canzone che gli piace, e che non tradisce il suo cammino fin qui lo rasserena, come la consapevolezza di essere un cantautore esattamente nel solco dei cantautori che furono, cita Dalla, Battisti, Tenco, Rino Gaetano, e che andarono su quello stesso palco a cantare per il Festival, qui ovviamente non allestendo paragoni, ma indicando in qualche modo dei precedenti che lo emozionano. Lui è un cantautore, ci ha detto, e non possiamo che confermare, e un cantautore di oggi. Quella che è stata la fiammata dell’indie, che nessuno però qui chiama per nome, è in qualche modo andata in fumo, lasciando in piedi solo che in fondo ci credeva davvero. Come lui, aggiungo io. Finito l’incontro si scherza fuori dal locale che ci ha ospitato, nel quartiere hipster, alla presenza di un tot di Federico, nome evidentemente ricorrente nella sua vita, visto che il suo produttore, nonché coautore del brano, è appunto Federico Nardelli. È tempo di salutarci. Tornando indietro, ripensando alla cena di ieri, alla mia amica che non ha lo smartphone, decido di non guardare lo smartphone anche io, giusto per provare un brivido di vita, mettermi a mia volta alla prova, come farà Gazzelle a Sanremo. Nell’ordine vedo un tipo con una pelliccia sintetica gigantesca, una barba tinta di biondo platino che gli arriva all’ombelico e un paio di baffi, anch’essi biondo platino, arricciati come usava ai tempi di Verdi, poi un tipo vestito da pagliaccio, e infine, una volta arrivato alla mia stazione un signore che procede su un cariolo, sprovvisto di gambe, e che di fronte ai tornelli tira dritto, passando sotto le sbarre come fosse la cosa più naturale del mondo. Forse a volte mettersi alla prova ha un senso, mi dico, mentre entro a casa, pronto per scrivere quello che avete letto. Non una grande morale, ma comunque una morale. Tutto qui.