Quando ero piccolo, parlo dei primi anni Ottanta, e per piccolo intendo un ragazzino, ricordo di aver assistito a una intervista in tv che ho trovato illuminante. Ovviamente ai tempi non sapevo cosa significasse un’intervista illuminante, ero appunto un ragazzino nei primi anni Ottanta. L’intervista era all’interno di uno dei programmi che guardavo più spesso, Novantesimo Minuto, condotto da Paolo Valenti e con tutta una serie di personaggi a noi familiari, in collegamento dai vari stadi delle città delle squadre che giocavano in serie A. Non ricordo da dove fosse il collegamento, quindi non saprei dire chi fosse il giornalista che stava facendo l’intervista, avessi saputo allora che quella era un’intervista illuminante me lo sarei magari segnato da qualche parte o avrei comunque fatto uno sforzo per registrare quell’informazione mentalmente. Ricordo invece perfettamente chi era l’intervistato, colui che ha detto la frase che ha reso quell’intervista per me illuminante, e anche chi era l’attore non protagonista di quell’intervista, rispettivamente Michel Platini e Massimo Bonini, numeri dieci e quattro di una Juventus che all’epoca non solo vinceva molto ma era l’ossatura della Nazionale che aveva da poco vinto i Mondiali di Spagna. Bonini no, lui era di San Marino e in nazionale non ha mai vinto nulla, anche questo dettaglio importante nel contesto di lettura di quell’intervista. In sostanza l’intervistatore, con fare scherzoso, chiedeva a Platini perché mai corresse sempre così poco durante le partite, e perché in tutti i casi non risultasse mai particolarmente sudato a fine partita. Tutti sapevamo a memoria il suo modo di correre lezioso, elegante, francese in una parola. Lui, con fare ironico, e altrettanto francese, rispose qualcosa che suonava suppergiù così, “Non ho bisogno di correre, corre lui per me,” indicando appunto Bonini che, appena finita la partita passava con la sua faccia piena di acne, il caschetto di capelli biondi e la faccia sfinita alle sue spalle. Illuminazione. Un campione, un fuoriclasse perché mai dovrebbe correre e sudare, rovinando anche quell’idea di eleganza che i suoi piedi regalano al pallone?, io già ai tempi avevo abbandonato il tifo per la Juventus, figlio e fratello di juventini, optando per il proletarissimo Genoa, per capirsi, ma il talento e il genio sono tali anche per chi tifa per un’altra squadra. I fuoriclasse non sudano, mi sono detto allora. Ci sono altri a farlo al posto loro. Metaforicamente, si intende. I fuoriclasse illuminano col loro talento il campo. Chi glielo farebbe fare di sudare e stancarsi, metaforicamente, loro fanno altro, a sudare e faticare ci pensino i Bonini. Oggi le cose sono diverse, il calcio sembra Fifa 24, tutti sono muscolosi, iperperformativi, gente che ho anche amato guardare, penso all’immenso Ibrahimovic, sono una specie di macchina da guerra, fisici scolpiti, perfetti. Sudano un po’ tutti, ma bevono a bordo campo integratori.
Veniamo a noi. Sentita la notizia che Fiorella Mannoia sarebbe tornata a Sanremo, col brano Mariposa, mi sono chiesto: ma chi glielo fa fare? Ho sostanzialmente fatte mie le parole di Platini, e so che oggi Platini non è esattamente il personaggio del mondo del calcio più presentabile, attenzione, lungi da me allestire paragoni, parlo del Platini di quegli anni lì, quello appena arrivato a Torino dal Saint’Etienne, coi suoi numeri da funambolo, le sue invenzioni, la sua eleganza, contrastata dalla veemenza geniale e spettacolare di Diego Armando Maradona, ma comunque uno dei numeri uno assoluti di sempre, se sei un fuoriclasse non ti serve sudare o correre, ci sarà sempre qualcuno che lo fa al posto tuo. Parafrasando, Sanremo, il Festival di Sanremo, certo il più importante appuntamento legato alla musica in Italia, da sempre, è comunque una gara, dove a fianco di qualche fuoriclasse si muovono scalmanati parecchi portatori di palla, alcuni coi piedi buoni, altri meno, perché una fuoriclasse come Fiorella Mannoia deve star lì a competere con nomi che, non fossi contrario alle scommesse al punto da non aver voluto dare voti ai preascolti per non agevolare il lavoro dei bookmaker, che su quelli fanno le quotazioni, lì a competere con nomi che, ci scommetterei a botta sicura, tra qualche anno avremo ben più che dimenticato? Poi ho sentito la canzone, Mariposa, un inno al femminile e al femminile come colonna vertebrale della storia, un inno spagnoleggiante, con un lungo elenco di situazioni che mi ha portato alla mente un brano che in passato la stessa Fiorella ci ha regalato tradotta sapientemente da quell’altro fuoriclasse che risponde al nome di Ivano Fossati, uno che per smettere di correre e sudare a un certo punto ha preferito passeggiare al mare che stare nel mondo dello spettacolo, O que serà di Chico Buarque de Hollanda, O che sarà nella versione italiana, e il paragone è di quelli importanti, una delle più toccanti e emotive canzoni di sempre, mica un giochetto. Ho sentito Mariposa e in parte mi sono risposto, perché in mezzo a un calcio iperperformativo, fatto di muscoli e tecnica portata allo spasimo, uno che corre più lento, quasi passeggia, ma che tocca la palla dandogli, come si diceva ai tempi di Gianni Brera, del tu, con confidenza e intimità, uno che con un colpo di tacco, una veronica, una rabona illumina una partita, penso al racconto di quando il piccolo Alessandro Baricco andò a vedere il suo Torino e Gigi Meroni, il George Best italiano, andò a fare un numero proprio sotto il settore dove si trovava lui, lui racconta che lo fece esattamente per lui, per stupirlo, e ho capito che sì, a volte i fuoriclasse decidono di regalarci emozioni, anche se intorno è tutto un correre e affannarsi, un mostrare i muscoli a beneficio di camera.
Non sufficientemente convinto, però, della mia lettura, perché la poesia è poesia, ma si sa in Italia vende poco o nulla, fatta qualche debita eccezione, sono andato all’incontro che Fiorella Mannoia ha fatto con un ristretto numero di giornalisti, a Milano. Fiorella Mannoia è in splendida forma, convinta che andrà a Sanremo per divertirsi, ce lo ripeterà più volte, spinta a farlo, attenzione, proprio dalla canzone. Canzone nata una sera a casa, mentre lei e il marito, Carlo Di Francesco, suo produttore/manager, oltre che musicista. Stavano guardando un serie tv, Il grido delle farfalle, serie che parla dell’assassinio delle sorelle Mirabal, attiviste dominicane uccise il 25 novembre del 1960, motivo per cui la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne viene celebrato in quella specifica data. Mentre stavano seguendo le vicende Carlo ha iniziato a scrivere su un foglio, il primo spunto del testo, cui ha poi messo mano la stessa Fiorella e in fine è diventata la canzone che ascolteremo al Festival, Mariposa, appunto, come le farfalle della serie tv, grazie al lavoro di Federica Abbate e di Cheope. Una canzone che Fiorella ha definito un manifesto femminista, che pone una a fianco all’altra immagini della storia e immagini quotidiane, sempre dal punto di vista delle donne. Una canzone che ha in qualche modo chiesto di partecipare al Festival, e tant’è. Durante l’incontro Fiorella ha parlato di tanto altro, dalle vicende che stanno vivendo sulla propria pelle, o sulla propria carne, verrebbe da dire, Elodie e Annalisa, scherzando sul fatto che, complice gli abiti per lei disegnati da Luisa Spagnoli, abiti che ci ha tenuto a dire saranno molto femminili, potrebbe anche twerkare, così da fare punti al Fantasanremo, del resto Mariposa gioca su ritmi latini, Carlo ha spiegato di come cumbia, reggaeton e tutta una serie di altre tipologie di generi siano in qualche modo tutti imparentati tra loro. Una chiacchiera che ce l’ha mostrata tranquilla, la voglia di festeggiare i settant’anni, di qui a breve, direi portati alla grande. In passato sono stato piuttosto duro con Fiorella Mannoia, con le sue ultime produzioni, a mio avviso troppo votate all’oggi, come un campione che decidesse di andare a giocare nei campionati arabi. Ho allestito paragoni col passato, consapevole di andare su un terreno sdrucciolevole, con un burrone lì a lato, l’ombra dell’ageismo evocata da qualche parte, ma figuriamoci se quello fosse il punto, in quel passato in qualche modo c’ero anche io, che non son mica un ragazzino performativo e muscoloso. Volevo, magari con la eccessiva veemenza di chi cerca di far coincidere le proprie aspettative con una realtà che non necessariamente di lì deve passare, e con la conseguente ferocia di chi si sente vai a capire perché tradito, come se di colpo mi incaponissimi a risentirmi, che so?, perché Charlize Theron si è sposato Tizio, sto ovviamente provando a giocare, scivolando forse però nel sessismo, e che cazzo. Credo ora di aver capito tutto. Come Sean Murphy di The Good Doctor quando, dopo aver visualizzato nella sua mente, noi spettatori vediamo il tutto sottoforma di immagini che si affastellano nello schermo, trova la soluzione a un problema chirurgico apparentemente irrisolvibile. Fiorella Mannoia è Platini che non corre, perché non le serve correre, è Gigi Meroni che viene a fare una veronica proprio sotto i nostri occhi, senza un apparente motivo, per il piacere di farlo e di regalarcelo. Che se la sudino gli altri, noi possiamo almeno goderci qualche bella giocata.