Diciamo la verità: ora che divento ricco voglio in affitto utero e ovociti illimitati di Cameron Diaz. Ha i piedi e gli occhi belli e la fossetta sulla guancia e talento e anche le palle per dire: basta col cinema. D’altronde la scelta dell’utero non è una novità legata agli uteri in affitto: l’umanità ha sempre cercato di figliare (uomini e donne) con chi corrispondeva a un certo gusto dettato da motivazioni da cervello reptiliano che sfuggono ad ogni nostro controllo e che riguardano la conservazione della specie e basta leggere Schopenhauer per capire che animali siete e poi leggere Hegel per cercare di purificarsi da questa orrida “natura”. Se non fossi quello che sono, ossia povero e intelligente, l’affitto dell’utero sarebbe la normale evoluzione del desiderio sessuale e dopo Cameron Diaz prenderei in affitto anche l’utero della Ocasio-Cortez.
Vedete: è vero senz’altro che la questione dell’utero in affitto è una questione di poveri-ricchi, ma lo è sempre stato. Anche prendendo in considerazione la normale copula tra un uomo e una donna: la donna sceglierà chi garantisce un futuro alla propria prole (e quindi uomini “ricchi”, una volta di caratteristiche fisiche, oggi di conti in banca), mentre l’uomo continuerà a capirci sempre poco affidandosi all’intuizione irriflessa del proprio pene (direi quasi: e meno male).
La verità è che la “civilizzazione” non ci ha liberati dallo stato di natura che fondamentalmente è di estrema destra e non si occupa né di deboli né di poveri, ma di bruta sopravvivenza della specie: l’utero in affitto ha in sé nazismo e fascismo e orrida “natura” e prevaricazione ed eliminazione del più debole ed è davvero strano che sia la destra a contestarlo quando è invece parte integrante della propria cultura: una sorta di difesa della “tradizione” del proprio patrimonio genetico e dei “confini” della propria “cultura”.
Di contro sarebbe assurdo che certa sinistra fosse così libertaria da considerare l’affitto dell’utero come una libera manifestazione della volontà lavorativa (è un lavoro, affittare l’utero, se te lo pagano è un lavoro), se non fosse che la sinistra, coi suoi sindacati, coi suoi contratti collettivi del lavoro, con la sua capacità di farsi corrompere, con la sua lascivia fascinazione verso il potere e il denaro, considera anche lo schiavismo lavorativo come una conquista democratica, a patto, certo, che lo schiavismo lavorativo sia collettivo e condiviso: diciamo che la sinistra è contro lo schiavo uno e singolo, alla sinistra ci piace che gli schiavi siano tanti e pure contrattualizzati collettivamente: mal comune mezzo gaudio insomma. Per la sinistra, il prossimo passo, sarà il blocco degli affitti dell’utero e l’equo canone – scommettiamo? Il problema della sinistra non sarà la donna costretta ad affittare l’utero per indigenza, ma rendere il più egualitario possibile l’affitto: la donna proprietaria di utero verrà considerata alla stregua di un capitalista e il problema sarà l’accesso all’affitto – che vergogna questi uteri vuoti. Immagino l’istituzione della Iaup (Istituto Autonomo Uteri Popolari). O, in casi estremi, lo squat dell’utero inutilizzato.
Per come la vedo io, mi sembra assurdo che destra e sinistra litighino sulla questione dell’utero in affitto perché, Storia alla mano, mi sembra che faccia parte di entrambe le culture e che tutto il dibattito sia ammantato di un’ipocrisia insopportabile. Il problema non è l’utero in affitto, ma il cosiddetto “stato di natura”: è da questo che dovreste liberarvi prima di parlare di ricchi e di poveri. Perché ricchi e poveri, se proprio bisogna dirla tutta, fanno entrambi ribrezzo.
Figliate come capita e non secondo i calcoli spietati del mondo animale (o credevate che gli animali figliassero anarchicamente?) e poi elevate la vostra prole al di sopra dei condizionamenti “naturali”. Figliate Spirito. Anche se, ovviamente, non è cosa facile.
Letture consigliate: “Il mondo come Volontà e Rappresentazione” di Arthur Schopenhauer; “Fenomenologia dello Spirito”, di George Wilhelm Friedrich Hegel; “Dell’indifferenza in materia di società”, di Manlio Sgalambro.