Voleva essere come Gianni Agnelli, il suo idolo, ma non ce l'ha fatta. Fra gli “Insopportabili” non poteva mancare Carlo De Benedetti. La rubrica firmata da Luigi Mascheroni su Il Giornale, dedicata ai personaggi più nefandi in circolazione, ha fatto tappa il 20 marzo presso il faccione dalle cascanti gote del finanziere ed editore più a sinistra del’establishment italiano, stile comunismo&rolex, per capirci. “Uno che va per i 90”, infilza Mascheroni, “ed è dagli anni ’70” il rappresentante di “quella classe padronale dell’Italia capitalista che con il suo dilettantismo politico e l’avidità di ricchezza ha falcidiato l’Italia, facendo dell’intreccio malato tra finanza e informazione - ieri come oggi e Domani- la ricetta di un potere che ha scavalcato il secolo e due Repubbliche” (più o meno lo stesso, a dire la verità, si potrebbe dire di Silvio Berlusconi…).
Il suo libro da poco uscito nelle librerie, intitolato “Radicalità”, è stato pubblicato dalla casa editrice Solferino di Urbano Cairo, uno che, sottolinea Mascheroni, “De Benedetti reputa un amico ma considera un cogl**”. L’operetta è una raffinata, fin troppo raffinata operazione di social-washing, detto anche paraculaggio da parte di un membro dell’élite che critica l’élite per meglio puntellarne il potere. Uno che ha “residenza civile a Dogliani (Cuneo, perché siamo tutti uomini di mondo) e domicilio fiscale tra Lugano e Sankt Moritz (perché chi non ha uno chalet in Engadina?)". Uno, insomma, che le tasse le paga in Svizzera, ma fa “beneficenza in Italia”. Mascheroni si pone l’azzeccata domanda: “Perché si danno alla politica tutte le colpe di questo debenedetto Bel Paese ma sulle responsabilità dei moschettieri del nostro capitalismo persevera invece una ruffiana reticenza?”. La risposta è ovvia.
Di suo, De Benedetti ha edificato negli anni l’immagine di un capitalista che si vorrebbe etico e dal volto umano, ammantato di antifascismo azionista e “culto dei Bobbio e dei Galante Garrone”, quando invece si dovrebbero ricordare “l’aggressività e il licenziamento facile” in Fiat nel 1976, l’arroganza sprezzante (“Non si può costruire auto con dei coglioni”, disse dopo appena cento giorni di quell’esperienza), e soprattutto la fine che fece la Olivetti, il coinvolgimento in Tangentopoli (anche se, a proposito di corruzione, nel 2013, parecchi anni dopo la “guerra di Segrate” per il controllo della Mondadori, De Benedetti si è visto risarcire da Berlusconi, prescritto ma riconosciuto corruttore dei giudici), “i giorni neri di Sorgenia e poi quelli rossi di Repubblica, il giornale-partito” di inarrivabile saccenza ceduta agli Elkann, fino allo scontro con i figli, la fondazione di Domani (una Repubblica in do minore senza nemmeno l’ego di Eugenio Scalfari) e infine, oggi, l’essersi ridotto, secondo Mascheroni, “a tifare Elly Schlein”. Una Schlein che in realtà è il prototipo perfetto della sinistra global, finto-socialista ed ecologista à la page che rappresenta l’ideale per i padroni alla De Benedetti.