Pensa, occorreva l’arrivo dell’Ingegnere per constatare con immediatezza l'abisso del Partito democratico. Carlo De Benedetti che cala infatti il sipario sul partito che si pretendeva forte del brand veltroniano della “vocazione maggioritaria”, ai nostri occhi, va ora, idealmente, immaginato in signorile vestaglia da camera mentre, subito giù in basso, si scorge un paesaggio di macerie politiche irrimediabili. In un film di Dino Risi, “Il gaucho”, una scena fa al caso nostro. Siamo a Buenos Aires, nella villa di un altro Ingegnere, interpretato da Amedeo Nazzari. Questi, accogliendo una comitiva di cinematografari romani in gita, si esibisce generosamente intonando una melodia del Paese lontano. Vittorio Gassman e Silvana Pampanini lo ascoltano stretti in un lento. A un certo punto, la Pampanini, rivolta a Gassman, ammirata, così commenta: “Ammazza, come canta bene l’ingegnere”, e Gassman di rimando: “Te credo, c’ha i soldi”. Questo breve dialogo, non sembri fuori luogo, serve a penetrare nella sostanza del nostro discorso.
L’Ingegnere De Benedetti, come quell’altro del film, nel nostro caso, le canta adesso al Pd, forte di se stesso, con crudele chiarezza. Una prece, la sua, consegnata ad Aldo Cazzullo per le pagine del Corriere della Sera: “Il Pd è un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un'elezione”. Ancora l’Ingegnere nostro, con ulteriore generosità, aggiunge che “la segreteria Letta è stata un disastro. Perché in campagna elettorale Letta non ha saputo indicare una sola ragione per cui si dovesse votare il Pd, ma solo ragioni per non votare gli altri. Per la sua arroganza e supponenza il Pd ha corso da solo e ha determinato la vittoria della destra, che alla luce dei risultati non era affatto scontata”. Si potrebbe obiettare che Letta aveva buone ragioni per indicare il sentore regressivo di una destra ancora prossima alle suggestioni fasciste, resta tuttavia che l’immagine prospettata dall’Ingegnere - i “baroni imbullonati” - brilla chiara ed evidente, rendendo impossibile assolvere chi si pretendeva invece attendibile presso un elettorato ormai fluido e preda del disincanto, ormai in fuga precipitosa da una sinistra che ha smarrito ogni simbolico, perfino blandamente progressista. Adesso qualcuno, ribaltando la citazione gassmaniana, obietterà a sua volta: “… parla bene, lui, lui che è ricco!” Obiezione che mostra un riflesso fideistico da trascorsa sezione comunista intitolata a Togliatti, nella convinzione cocciuta che i gruppi dirigenti abbiano sempre e comunque ragione, poiché “la linea non si discute”; candido tepore autorassicurante da “centralismo democratico”, sia pure fuori tempo storico massimo.
Magari incurante che il Pd, lo diciamo con sobrietà, non è mai apparso né carne né pesce, e neppure, volendo citare un tema alimentare apparso nelle stesse settimane dell’insediamento del governo Meloni-Salvini (da De Benedetti definito “obbrobrioso”) carne coltivata in laboratorio. Non è però ancora tutto. L’Ingegnere, sempre in tema di finta pelle, demolisce ulteriormente il Pd con pertinenza autoptica: “Le democrazie moderne sono minate da due mali che le divorano da dentro: le crescenti disuguaglianze e la distruzione del Pianeta. Un partito progressista che non mette in cima al suo programma questi due punti non serve a niente, e infatti fa la fine del Pd; che ha conquistato la borghesia e ha perso il popolo”. Provo ora a immaginare ancora lo sguardo dell’Ingegnere nel suo appartamento torinese in cima alla Torre Littoria di piazza Castello. Me lo figuro adesso come già il professor Alessandro Cutolo, colui che nel trascorso tempo televisivo in bianco e nero dispensava consigli utili e illuminanti sull’esistente tutto, un istante appena ed ecco apparire il deserto dei tartari a perdita d’occhio cui ormai assomiglia il partito di cui stiamo ragionando. Un soggetto politico in attesa di se stesso dai giorni della sua fondazione, assente perfino nelle scelte contingenti da assumere, metti, per le imminenti elezioni in Lombardia: “Sono sicuro che un candidato del Pd non vincerebbe mai. Mentre contro Attilio Fontana la Moratti può farcela. Se il Pd la appoggiasse, secondo me ce la farebbe. Se Salvini perde la Lombardia, cade. E se cade Salvini, cade il governo”, nota ancora il nostro Ingegnere.
Perfino a dispetto di chi ragionando sulla sostanza “culturale” del Pd continua a ritenerlo impropriamente una forza di sinistra, è proprio lo “straniero” De Benedetti a chiarirne invece il carattere amorfo. Si potrebbe obiettare nuovamente su come possa un “ricco” dare lezioni di strategia a una forza politica dagli intenti progressisti. Bene, per quanto sembri assurdo, storicamente sono sempre stati proprio gli appartenenti alle classi agiate a offrire parole dirimenti in nome della rivolta: si pensi, nell’ordine, al duca Carlo Pisacane, al principe anarchico Kropotkin, al non meno aristocratico Bakunin e a ogni altro residente dell’ideale grattacielo del socialismo o di ogni semplice sogno di ordinaria socialdemocrazia. Ora che ci penso, il riferimento al deserto dei tartari è eccessivo, forse basterebbe, restando a Buzzati, pensare a quel suo ex voto dove le teste impagliate di rinoceronti abbattuti da un marchese, nottetempo, processano il cacciatore. Non sembri una metafora improbabile, ma, come afferma proprio De Benedetti, nei simulacri dei rinoceronti sconfitti sembra ora proprio di ravvisare una classe dirigente preoccupata di perpetuarsi, sopravvivere in quanto tale. Già, “baroni imbullonati” sullo sfondo del crescente deserto elettorale.