Il più importante logico del Novecento, Kurt Gödel, confessò nel 1975 all’amico matematico Hao Wang, cosa pensava della storia: “Non mi fido della ‘storia deli storici’. La storia è una grande menzogna. I fatti nudi e crudi sono veri, ma le connessioni che vengono presentate sono di solito inventate”. Forse era un giudizio troppo estremo e difficilmente comprensibile per chiunque abbia frequentato la materia nutrendosi dei grandi libri di storia. Certo, c’è una parte di racconto. Ma anche la storia ha una sua logica. A sentire Alessandro Barbero, però, talvolta si può credere che Gödel avesse ragione. Sarà per il trend, sfumato, della presunta sostituzione del prof con Mario Sechi a Rai Storia, una fake news; ma sta tornando virale un video dello storico che, durante un Festival, decide di perculare un po’ l’economia. “Alla larga dagli economisti. Se mettete su un palco storici, antropologi eccetera, sarà la prima cosa su cui ci troviamo d’accordo: parliamo male degli economisti. p fin troppo facile perché se gli economisti conoscessero davvero la loro materia, l’economia non sarebbe nello stato in cui è”. Basti qualche analogia per mostrarvi il livello di scemenza di questa affermazione: se i medici conoscessero davvero la loro materia, non avremmo le pandemie. Se i geologi conoscessero davvero la loro materia non avremmo i terremoti. E soprattutto: se gli storici conoscessero davvero la loro materia non avremmo le guerre.
Non serve spiegare cosa sia una crisi economica, quali siano gli elementi di frattura di un tessuto economico all’interno di una società (tra le varie cose anche regimi fiscali deficienti, e cioè socialisti; ideologia che Barbero dichiaratamente apprezza). Basta non convincersi – e non convincere il pubblico – di essere una vestale della conoscenza suprema. Di solito chi lo crede sbaglia e fa pessime figure: dai filosofi agli storici, dagli economisti ai fisici. Ma andiamo avanti: “Effettivamente dell’economia una volta non importava niente a nessuno. A tutti importava di fare soldi, a tutti importava di fare affari e di arricchirsi. Non è detto che ai governi interessasse molto il fatto che le società che governavano si arricchissero. Ma la cosa non veniva pensata. Noi sappiamo benissimo che l’economia è una parola che deriva dal greco, ma i greci non lo avevano questo concetto”. Ancora una analogia. Sarebbe come sostenere che, essendo la scienza, per come la conosciamo, una disciplina nata tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, allora prima le società erano completamente disinteressate alla scienza. Per fortuna numerosi storici hanno dimostrato che questo è falso e che la scienza non è una materia che nasce dal nulla. Se è vero che l’economia, in senso proprio, nasce nel Settecento – e viene anticipata in parte dal mercantilismo – è altrettanto vero che per comprendere le origini di questa nuova scienza è necessario comprendere a fondo cosa questa scienza mira a studiare. Ed è questo che, evidentemente, Barbero ignora.
Potremmo identificare l’oggetto di studio dell’economia con due termini apparentemente di senso comune, ma molto difficili da definire: azione e proprietà. Uno dei saggi più importanti dell’economia del XX secolo si intitola non a caso L’azione umana (in Italia pubblicato da Rubettino). L’autore, l’economista austriaco Ludwig von Mises, sostiene che l’economia ha il compito di studiare la serie di eventi economici che capitano in una società. In altre parole, ha il compito di leggere l’insieme delle azioni umane, le stesse che vengono raccontate dalla storia. La proprietà, invece, non è altro che la capacità di disporre liberare di qualcosa. Come sostiene un allievo di Mises, Murray Rothbard, la proprietà prima fra tutte è quella su se stessi, e cioè sul proprio corpo e sulle proprie azioni. La proprietà privata, in altre parole, garantisce la libertà di disporre liberamente di qualcosa, a partire da noi stessi. È evidente allora che l’economia debba tener conto della proprietà, e cioè della libertà individuale di ciascuno di gestire alcuni beni. Il modo in cui le persone interagiranno nella gestione dei propri beni (per esempio in uno scambio commerciale), è ciò che l’economia studia. Abbiamo aggiunto dunque un terzo termine: non solo azione e proprietà, ma anche libertà.
La libertà si esprime principalmente come un’azione: libertà di pensare, di parlare, di muoversi, di astenersi. La vera libertà è allora avere la proprietà privata delle proprie azioni. Pensare, parlare, muoversi e astenersi dipendono solo da te. Questa è la libertà. L’economia non è semplicemente tenere i conti, non è, come pare credere Barbero, una sorta di ragioneria sofisticata. E gli elementi centrali nello studio economico non sono invenzioni recenti. Come spiegano altri storici, che Barbero indubbiamente conoscerà, la proprietà è una questione centrale fin dall’antichità. Richard Pipes, storico di Harvard, lo spiega ricordando la diatriba tra Platone, che sognava una sorta di socialismo utopico, e Aristotele, che già discuteva del valore della proprietà. Se per Platone la proprietà collettiva avrebbe risolto i problemi politici e sociali, per Aristotele, come scrive nella Politica, la proprietà doveva essere privata (e individuale): “Quanto è incommensurabilmente più grande il piacere quando un uomo sente che qualcosa è suo!” E ancora: “Gli stati hanno bisogno di proprietà, ma la proprietà non appartiene allo stato”. Non è forse una riflessione economica questa proposta da Aristotele?

Da tempo Alessandro Barbero, indubbiamente competente nella sua materia, è diventato una sorta di santone della sinistra ortodossa, una sorta di Bignami vivente grazie al quale poter rispondere su ogni questione: dal fascismo alle differenze con il comunismo (a proposito, c’è un altro libro di Richard Pipes che vi consiglio: Comunismo. Una storia). No, Sechi non sostituirà a Rai Storia Barbero, anche perché lo storico non è direttore della rete come si sosteneva. E difficilmente vedremo sempre meno Barbero in tv o nei festival. Ma qualcuno forse dovrebbe iniziare a sostituirlo nei cuori dei tanti hipster che si esaltano per un uomo incredibilmente talentuoso come divulgatore, ma confuso troppo spesso con Gesù.
