Sarà, ma riconoscere in Carlo De Benedetti un campione di ciò che ritiene necessario per il Paese, un cambiamento radicale, viene abbastanza arduo. Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia, uscito l’ultimo giorno di febbraio per Solferino, è il libro con cui l’ingegnere, classe 1934, invece che “cercare la quiete” come si converrebbe alla sua età, è lui che lo scrive, si dice convinto che “questo sia il momento della tempesta”. Armiamoci e partite, con un titolo che avrebbe un senso se l’avesse scritto un marxista, molto meno uno dei principali protagonisti del capitalismo italiano degli ultimi cinquant’anni, perché più che radicale, De Benedetti, più volte è stato inserito nella lista dei radical chic. Concetti politici, quelli che De Benedetti esprime in Radicalità, che l’ingegnere ha più volte ribadito in diverse interviste apparse sui giornaloni e in tv negli ultimi anni e che non possono che essere presi per buoni e giusti, perché lo sono. Il capitalismo ingannatore che “ha tradito la sua promessa fondamentale” del benessere generalizzato, le disuguaglianze che divorano le democrazie e la società, il pianeta che di questa ingordigia fa le spese: una splendido comizio, per quanto canonico, buono per qualsiasi leader o presunto tale di un qualsivoglia partito riformista. Ma che, in qualche modo si scontra con la storia di De Benedetti, innovatore e illuminato magari, uno che ha spesso detto cose di sinistra ma molto liberale, da un pulpito di imprenditore, scalatore, finanziere, editore (non puro, a proposito di salute della democrazia) e che di radicalità, in questo suo percorso vincente, non si è esattamente nutrito, né peraltro l’ha subita.
Elogio della radicalità, una decina di anni fa, fu il titolo di un libro del professor Piero Bevilacqua, pubblicato per Laterza, e lo stesso storico avrebbe poi scritto, per lo stesso editore, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo. Nel primo testo si poteva leggere come “il pensiero radicale, considerato estremo e violento dalla vulgata storica, è in lotta per aprire la via a un diverso rapporto degli uomini con la natura, un rapporto di cura e protezione che metta fine all’età del saccheggio; a nuove relazioni solidali fra gli uomini, a una più equa ripartizione del benessere”, che è un po’ ciò che si ritrova anche in De Benedetti e nel suo auspicio di un nuovo e moderno socialismo, ma che in Bevilacqua assumeva una certa coerenza, in Radicalità invece appare la lezione di un grande maestro che poi, per la verità, l’ha più insegnata che applicata, coinvolto nel capitalismo ingordo e radicale, quello sì, più che assolto da esso. Non si tratta di considerare la ricchezza capitalista una colpa, ma “bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti”, per usare le parole di uno che ha spesso scritto cose eccellenti anche sulla Repubblica dell’ingegnere, Stefano Benni. Questa massima formidabile, Benni, la inserisce in Saltatempo, un romanzo che oggi ha più di vent’anni e parla anche di politica e capitalismo senza parlare di politica e capitalismo. E, allora, eccoci al punto: quanto assomiglia la parabola imprenditoriale di De Benedetti alla parola radicalità?