È noto che, in qualsiasi ambito, mano a mano che si scalano le posizioni di potere, la concreta possibilità di critica verso chi sta più in alto o più o meno allo stesso livello, anziché aumentare, diminuisce. Maggiore la responsabilità, minore la libertà. La dignità, però, si può sempre cercare di difenderla. Magari non proprio sempre, ma insomma la faccia, davanti alla quale, avendone una coscienza, ci si confronta al mattino, quella si può salvaguardarla, bene o male. Questa volta a ricordarcelo è stato Enrico Mentana, direttore del Tg di La7 il cui editore, Urbano Cairo, ha mantenuto finora sulla linea terzista tipica del Corriere della Sera (non schierarsi a priori e mai deragliare dai binari del pensiero trasversalmente corretto, riservandosi tuttavia il diritto di fronda là dove ritenuto possibile e necessario).
Ospite all’ultima puntata di Non è l’Arena di Massimo Giletti, Mentana ha reagito con un sonoro schiaffone morale al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che attraverso una nota del suo dicastero aveva fatto sapere di voler difendere “l’onorabilità del governo”, di sé medesimo e di tutte le istituzioni coinvolte nei soccorsi ai migranti in mare dalle “gravissime false affermazioni” di alcuni partecipanti alla trasmissione, in particolare dall’accusa di Orlando Amodeo, medico e soccorritore calabrese: “Sono 30 anni che faccio soccorsi e ci sono stati salvataggi con imbarcazioni adeguate anche in condizioni di mare peggiori. Qualche anno fa con un barchino siamo scesi con un mare forza 7-8, in sei uomini, e abbiamo salvato 147 persone”. Il direttore del TgLa7 ne ha prontamente preso le difese: quelle di Piantedosi, è sbottato, “mi sembrano minacce. Facciamo nostre le parole degli ospiti, così se la prendono anche con noi. In una televisione libera, gli ospiti dicono quello che pensano. Ricordiamoci cos’è la libertà”.
Si stava parlando di 63 morti, fra cui molti minori, bambini compresi, finiti affogati o gelati nel mare al largo di Crotone in Calabria, dopo che la bagnarola su cui erano stipati in 150-200, prevalentemente iraniani, afghani e pachistani, si è rotta come un grissino, lasciandoli ai disperati tentativi di salvarsi a soli 100 metri dalla riva. Si parlava dell’aereo dell’agenzia europea sull’immigrazione, Frontex, che a 40 miglia dalla costa aveva avvisto il motopeschereccio, a quanto risulta portato lì da quattro scafisti, uno turco e due pachistani (sul quarto sono in corso accertamenti), allertando sei ore prima del naufragio due mezzi navali della Guardia di Finanza, secondo il procuratore crotonese, Giuseppe Capoccia, impossibilitate al salvataggio per le “terribili condizioni del mare” a forza 7. Si parlava, com’è giusto e logico, delle eventuali responsabilità dell’ennesima tragedia di esseri umani che pagano 7-8 mila euro sapendo di rischiare la morte fisica, pur di scappare dalla morte altrettanto fisica, o civile, o economica, nei Paesi d’origine (e stendiamo un velo pietoso su Piantedosi secondo cui “la disperazione non può giustificare viaggi pericolosi per le vite dei figli”).
Questa non è retorica, è realtà, cari i nostri normaloidi tronfi di cinismo che dai divani pontificano prendendosela con chi ha il coraggio di affrontare simili traversate da incubo. Si parlava, appunto. E parlare, esprimere la propria opinione, dovrebbe diventare materia da tribunali solo in extrema ratio, avendo la sensibilità (anche politica) di non trascinarvi i Davide che si scagliano contro i Golia. Amodeo era stato chiamato perché impegnato in prima persona. Si è scoperto poi che è stato candidato al Senato per Europa Verde: e con ciò? Non resta forse un quidam de populo, uno che di fronte all’Avvocatura dello Stato conta quel che può contare, e cioè poco? Che poi, nel merito, non si trovano forse testimonianze di macchinisti che sostengono che anche con i cavalloni a forza 7 si poteva intervenire (“Naufragio Crotone, il marinaio accusa: ‘Non è stato il mare grosso a impedire i soccorsi”, agenzia Dire, 27 febbraio), o anche semplici notizie di cronaca passata (“Mare forza 7, soccorsi 435 migranti” a Lampedusa, Ticinonline, 6 febbraio 2017) che per lo meno un dubbio lo mettono? Cos’è mai questo scattare in riflesso pavloviano ad adire le vie legali pur di controbattere, se non un sintomo di debolezza?
Sia come sia, Mentana è stato lesto a dargliele sul muso, ai governanti permalosi. Più che permalosi: se sei al governo e minacci querele, e dall’altra parte non c’è qualcuno in grado di parare il colpo, che so, un Saviano con tutta la cassa di risonanza al seguito, è in atto un’intimidazione. E contro chi cerca di piegare il dissenso, la schiena dritta è l’unica risposta. Non tanto in onore della “libertà”, come ha detto Mentana, ideale trasmutato in idolo a cui corrisponde uno stato generale dell’informazione che di libero vede rimanere soltanto qualche piccola oasi nel deserto (cosa c’è di “libero”, ad esempio, nell’aggredire e ridicolizzare le voci dissonanti dalla Versione Unica Obbligatoria sulla guerra in Ucraina, per cui appena uno s’azzarda a ricostruire i fatti prima dell’invasione russa, o a caldeggiare la via dell’inevitabile compromesso negoziale, si becca del putiniano?). No, meglio stare su una più realistica, ma al contempo molto più difficile e molto meno cerimoniosa dignità. Quella che dovrebbe farci chiedere come mai la Turchia, nostro infido alleato nella Nato e beneficiario di svariati miliardi europei per bloccare, con l’usuale cinismo, 5 milioni di profughi, non argina le partenze via mare. “Si parla sempre dei flussi dal Nord Africa, ma la rotta turca viene affrontata poco e male”, ha sottolineato Roberto Occhiuto, presidente (di centrodestra) della Calabria (La Verità, 28 febbraio). E già, chissà perché è così. Facciamoci anche questa, di domanda. Per un fatto di dignità nazionale. Anzi, di dignità e basta.