“Non mi hanno mai sparato addosso”. Bravura, fortuna o tutt’e due, bene così. Altrimenti oggi Luca Steinmann, abituato a raccogliere interviste in mezzo mondo, non sarebbe stato qui a farsi intervistare per raccontarci i retroscena del suo lavoro di inviato di guerra, in particolare in quella che si sta combattendo ancora in Ucraina, nonostante una certa semi-indifferenza nell’Italietta agostana e pre-elettorale. Giornalista freelance, 32 anni, un curriculum ricco di reportages in molti fronti caldi, dalla Siria all’Afghanistan passando per l’Armenia e la Giordania fino alla Cina, è in pausa a Milano, dove vive, in attesa di ripartire per la linea di fuoco. Un momento di respiro dopo quattro ininterrotti mesi in Donbass, seguendo gli spostamenti dell’esercito russo per conto del tg di La7, di Repubblica e della rivista di geopolitica Limes, su cui scrive come analista. “All’inizio ero scettico, non mi aspettavo che la crisi degenerasse, ma grazie a qualche buon consiglio sono partito e il 18 febbraio scorso ero in Donbass, in base al principio secondo cui un buon giornalista deve farsi trovare sul posto dove la notizia può avvenire. Una volta su dieci il colpo di fortuna arriva”.
E il colpo di fortuna, come lo chiami tu, è arrivato. Il Donbass era già da otto anni un teatro di azioni militari, in effetti. E tuttavia non molti sono stati i giornalisti presenti dall’altro lato del conflitto, quello russo. Perché hai scelto di andare lì?
Devo dire che mi stupisce che quasi nessun altro collega al mondo abbia pensato di fare quel che ho fatto io, andando in Donbass sul lato dei russi prima che iniziasse l’escalation. Quando sono arrivato a Donetsk, ero uno dei pochissimi giornalisti sul territorio. Qualche giorno dopo le autorità russe hanno chiuso le frontiere per la stampa e ci siamo ritrovati in un paio, io e Gabriele Micalizzi, che nel primo periodo era con me come fotografo, e una troupe francese. Un altro paio, invece, se ne sono andati.
La gran parte dei colleghi ha preferito il lato ucraino, evidentemente.
Devo dirti che lavorare dall’altra parte del fronte è stato un esercizio professionale molto arricchente, nel senso che ho potuto raccontare la guerra senza avere una “missione” da compiere, non stando cioè lì per mostrificare il nemico, ma per il genuino interesse a riportare i fatti anche dalla prospettiva russa, perché da quella ucraina ce n’erano già centinaia, di bravi colleghi sul campo. Ho potuto vedere come vivevano il conflitto la popolazione, i soldati ma anche gli altri colleghi russi. Fra mille difficoltà, sono riuscito a lavorare.
Hai avuto problemi da parte dei russi?
Pressioni, sì. Censure, mai. Sentivo il grado di attenzione e aspettative dei russi sul nostro lavoro, ovvero la consapevolezza che tutto ciò che mandavo in onda o pubblicavo veniva visto e letto con puntualità, della serie che quando usciva qualcosa al mattino, anche se io non postavo nulla sui social, a fine mattinata le autorità locali erano al corrente di tutto nel dettaglio.
Dovevi stare attento a cosa far uscire, insomma.
Sì, il rischio era l’espulsione dalla zona. Le testate con cui collaboro sono di uno Stato, l’Italia, considerato nemico. Ma non sono mai stato censurato. Nessuno mi ha mai detto cosa pubblicare. Ho seguito l’esercito russo che avanzava villaggio dopo villaggio, fino a Mariupol, che poi è stata accerchiata. Con Micalizzi siamo stati fra i primissimi a entrarci quand’era sotto le bombe, e sono stato fra i primi qualche tempo dopo a entrare nell’acciaieria Azovstal assieme ai ceceni. Poi mi sono spostato più a nord, nella regione di Lugansk, seguendo gli assalti dei russi dietro le linee nemiche.
E la censura, magari più o meno felpata, di casa nostra, l’hai subita? Michele Santoro tempo fa ha ricordato che i freelance sono ancora più esposti, sotto questo punto di vista, essendo lavorativamente più fragili.
I freelance sono spesso in posizione più debole rispetto ai colleghi assunti, questo è un dato di fatto. Come è un altro dato di fatto che tanti media italiani e occidentali abbiano aderito a una linea partigiana in questa guerra, sostenendo l’Ucraina apertamente, soprattutto nelle prime settimane. Nonostante questo, voglio spezzare una lancia a favore del sistema giornalistico italiano, almeno se paragonato a quelli di altri Paesi occidentali. Da noi c’è un livello di libertà di espressione più ampio. Ti faccio un esempio: pensa al dibattito sui primi canali del Paese circa la narrazione messa in atto nella prima fase bellica. Ecco, in Germania questi dibattiti sono relegati ai mondi cosiddetti alternativi, rigidamente divisi dal mainstream con il quale non si parlano più, avendo ormai pubblici diversi, che si rafforzano nelle proprie convinzioni. In Italia invece nel mainstream puoi ascoltare persone con posizioni opposte agli altri interlocutori, e questo è un buon segnale. Il problema è che da noi si tende a buttarla in caciara a prescindere dall’argomento, preferendo lo show e le urla all’analisi. In ogni caso, da Limes o dal Tg La7, per esempio, non ho mai avuto nessun suggerimento su cosa pubblicare.
Veniamo al lavoro di reporter di guerra vero e proprio. Come funziona?
Partiamo dal fatto che non esiste un album dei giornalisti di guerra, questo mestiere ce lo si inventa da soli a proprio rischio e pericolo. Non c’è un manuale di istruzioni. Bisogna sapersi muovere in modo indipendente, che significa prepararsi prima, specialmente sulla conoscenza del territorio, della storia, della cultura e della lingua, nonché, ovviamente, reperire i contatti utili, fra cui, per esempio, un traduttore fidato. Bisogna portarsi medicine e l’abbigliamento adatto. In genere è un lavoro o individuale o di coppia, assieme a un cameraman o a un fotografo. Ma sempre consapevoli che si può rimanere da soli, come mi è successo in Ucraina, appunto. Dopo un primo periodo filmavo io, fotografavo io.
Dove dormivi?
In camere affittate o in alberghi, ma quando arrivavano i soldati dovevo andarmene e trovare un’altra sistemazione.
Uno stress sullo stress.
Alla fine, questo tipo di lavoro giornalistico è un viaggio verso l’ignoto. Io son partito pensando di restare 10 giorni, e invece sono rimasto 4 mesi.
L’ultimo giornalismo romantico, verrebbe da dire.
Sicuramente bisogna avere spirito d’avventura. Io ho iniziato per questo, per esperienza di vita. Una motivazione che mi anima ancora. Attenzione, però: la passione e la curiosità non devono condizionare il lavoro. Occorre evitare di identificarsi con le persone e i soldati al fronte, anche qualora ci sia una inevitabile empatia.
Un obbligatorio distacco professionale.
In realtà finisci con lo stringere dei rapporti, e la cosa più interessante è vedere come le persone cambiano nel corso delle vicende che subiscono. Questo aspetto umano ti fa capire molto di più una guerra rispetto a un reportage di una settimana e via. Rimane il fatto che la descrizione deve poi restare più analitica possibile. E sono convinto di un’altra cosa: oltre a giornalisti curiosi, ci vogliono anche lettori curiosi. Un giornalista non ti può dare la Verità, ti può riportare quel che viene a sapere a partire da quel che vede con i suoi occhi. Sta ai lettori, in maniera attiva, saper giudicare il mio lavoro.
Hai rischiato la pelle, nei quattro mesi passati in Ucraina?
Pericoli ne ho corsi tanti, soprattutto bombardamenti. Diverse volte a Donetsk sono stato sotto le bombe ucraine. Mi ricordo un giorno una strage per l’esplosione di un proiettile intercettato dalla contraerea russa: è esploso in mille schegge e ha ucciso 22 civili nelle strade, a mezzo km dalla mia stanza. Anche a Mariupol ho rischiato. Oppure un’altra volta, mentre viaggiavo in auto con un soldato su una strada sterrata per chiedere informazioni nell’oblast di Lugansk, a 200 metri dietro di noi, dove eravamo passati un minuto prima, è piovuto un missile Grad, quindi fortunatamente piccolo, che ha creato un polverone. Ce ne siamo andati il più in fretta possibile.
A Mariupol hai visto i morti sulle strade, le fosse comuni?
A Mariupol mi è capitato di arrivare sul posto e trovarlo pieno di cadaveri civili e militari, ho visto cimiteri collettivi. Ma più che i morti, se posso dirlo, mi toccano i vivi: a Mariupol, con la popolazione intrappolata negli scantinati per mesi, scendevo nei sotterranei e incontravo persone che erano più fantasmi che esseri umani, con la difficoltà di vedere la luce, che erano rimaste quasi senz’acqua da bere per settimane. E puoi immaginarti l’odore. Uscivano da quelle catacombe senza sapere se il marito, la moglie, il parente, l’amico fosse sopravvissuto, e chiedevano notizie. Fra loro c’erano bambini orfani di meno di 10 anni, curati e gestiti dalla collettività in un contesto disumano, di inferno in terra.
Ma riguardo le responsabilità delle stragi, rimpallate o negate dalle opposte propagande, tu da osservatore sul campo che idea ti sei fatto?
Per indagare sulle responsabilità è necessario sempre avere il supporto delle autorità, dell’esercito e dell’intelligence locali. Non vedo come potrei essere io a verificare, dal momento che purtroppo i massacri si prestano alle speculazioni di una o dell’altra parte. Prendiamo il caso di Mariupol. In seguito ai bombardamenti massicci da parte dei russi, andando fra i palazzi inscheletriti ti raccontavano che dentro c’erano soldati ucraini a combattere. Quindi da un lato c’erano le autorità ucraine che parlavano di bombardamenti indiscriminati, certamente avvenuti, dall’altro i russi accusavano gli ucraini di utilizzare la popolazione civile come scudi umani. Era molto difficile per me affermare che i russi colpivano solo obiettivi civili, o anche militari. Oppure, per citarti un altro caso, una volta ero in una cittadina vicino Donetsk, dove i russi avevano bombardato un ospedale che era pieno di diversi soldati ucraini. Tutto dava l’idea che questi ultimi vivessero all’interno: nei sotterranei c’erano accampamenti, e c’erano molte armi in giro. Quell’ospedale era un obiettivo civile o militare? O ancora: quando ho assistito a bombardamenti su case civili da parte degli ucraini nella zona di Lugansk, l’ho visto con i miei occhi, ma al contempo era pratica delle milizie russe mettersi nei giardini delle case abbandonate dei civili. In generale, insomma, quel che posso fare io è riportare testimonianze. Poi sta a ognuno fare le proprie valutazioni.
Insomma, del giornalismo onesto, sapendosi destreggiare, si può ancora fare.
Sì, secondo me sì.
A proposito di valutazioni: puoi farci una fotografia della stato attuale dello scontro?
Questa è una guerra che è stata davvero un punto di rottura geopolitico. Il coronavirus, in termini di rapporti fra potenze, non ha cambiato assolutamente nulla, la guerra tra Russia e Ucraina ha invece cambiato in modo pesantissimo i rapporti fra Russia e Occidente, e questo fa sì che finchè in Russia ci sarà un sistema di potere permeato dalla visione del mondo di cui Putin è interprete, non potrà esserci un ritorno a rapporti amichevoli.
Quali sono le prospettive a medio-breve termine, secondo te? Continuerà a lungo?
Nelle prime settimane c’è stata una reazione molto forte da tutti, o quasi, i Paesi occidentali contro la Russia, anche con sanzioni punitive, con una compattezza che Putin non si aspettava. Ora ho l’impressione che si stiano creando delle crepe nel fronte occidentale, rispetto a come agire nei prossimi mesi, perché le posizioni americane non coincidono per forza con quelle europee. Per esempio è palese una discrepanza con i tedeschi, nella cui classe dirigente c’è la consapevolezza che, per lo meno nel breve periodo, il benessere della Germania è legato al mantenimento di relazioni con la Russia, per quanto riguarda gas, idrocarburi, commerci, sicurezza. Mi sembra quindi che sul tavolo si stiano mettendo idee diverse su come rapportarsi nel prossimo futuro.
Gli europei, con l’avvicinarsi dell’autunno che si prospetta economicamente e socialmente disastroso, si stanno accorgendo che a rimetterci sono più loro, degli americani?
Gli europei si rendono conto di avere maggiormente da perdere rispetto agli americani a mano a mano che ci si avvicina all’autunno. In Francia, è maturata la convinzione che la strategia americana non sempre combaci con gli interessi degli europei, che saranno messi di fronte sempre più alle conseguenze dirette delle sanzioni.
Ma la guerra, sotto il profilo militare, come sta andando, secondo la tua opinione?
Io vedo un’Ucraina in grandissima difficoltà, che sta perdendo terreno, sia pur lentamente e fra insuccessi clamorosi della Russia. Se prendiamo una cartina dell’Ucraina oggi, vediamo che i russi avanzano lentamente ma inesorabilmente, almeno nel Donbass. Finora la linea del governo di Kiev è stata massimalista, ovvero volta a ottenere il massimo: riconquistare Donbass, Crimea e non rinunciare a nessuna fetta dei nostri territori. Ma l’Ucraina come intende riconquistare questi territori? Traducendo, significa che Usa e Occidente devono chiarire se valga la pena di morire per Kiev e per il governo di Zelenskij, oppure se è il caso di studiare dei piani B. Di certo, qualora Kiev decidesse per questa seconda opzione, dovrebbe fronteggiare forti movimenti di opposizione interna. Riassumendo, possiamo dire a mio parere che ormai dalla parte della Russia il dado è tratto, e che la conflittualità permarrà nei prossimi decenni e si manifesterà in vari territori in cui gli interessi sono contesi, come già si vede a Kaliningrad o sull’esportazione del grano da Odessa. Però i negoziati in corso dimostrano come siamo già di fatto entrati in una fase negoziale, benché non ufficiale. Quando la Russia annetterà in via anche formale il Donbass, cosa che intende fare entro le prossime settimane, a quel punto i negoziati si tradurranno in una tavola rotonda ufficiale come erano stati gli accordi di Minsk. Io penso sarà un processo molto lungo e doloroso, ma potrebbe essere la via di sbocco.
Senti, una battuta ironica per concludere sdrammatizzando: ma durante i collegamenti giornalieri con Enrico Mentana, dimmi la verità, hai mai colto segnali che il direttore si dopi in qualche modo?
(Ride). No, il direttore fa il suo lavoro con grandissima passione. Il suo doping è la diretta.