C’è una frase, postata in modo quasi lapidario da Carlo Calenda su Instagram, che ha il sapore della sentenza: “Facendo un bilancio della gestione Elkann fra Stellantis, Ferrari e Juventus sembra che ci sia un problema al vertice”. Un attacco diretto, senza appello, che colpisce il cuore dell’universo industriale e sportivo che ruota attorno a John Elkann. E che, a ben vedere, non nasce da un impulso estemporaneo, ma affonda le radici in un dissenso politico, culturale e industriale che Calenda nutre da tempo verso l’operato dell’erede della dinastia Agnelli.
A fare da sfondo ci sono tre simboli profondi del Made in Italy: l’industria automobilistica, l’eccellenza motoristica di lusso e il calcio, declinati nei marchi Stellantis, Ferrari e Juventus. Tre mondi che Elkann presidia in posizione di comando e che oggi, secondo Calenda, tradiscono segni evidenti di crisi o stagnazione. I numeri sembrano dargli ragione. Stellantis, sotto la sua presidenza, ha chiuso il 2024 con un utile netto in caduta libera – meno 70% rispetto all’anno precedente – e con un calo di ricavi che ha sfiorato il 17%. A pagare il prezzo più alto sono stati i marchi storici ex FCA, come Fiat, Lancia e Alfa Romeo, progressivamente ridotti al ruolo di comprimari nel progetto industriale europeo e francese. Maserati, ad esempio, ha visto dimezzarsi vendite e fatturato, mentre la produzione nazionale è crollata, con migliaia di esuberi e stabilimenti sempre più svuotati.
Il giudizio di Calenda non si limita ai numeri: è politico. La fusione tra FCA e PSA – che ha dato vita a Stellantis – viene letta dall’ex ministro come una cessione mascherata della sovranità industriale italiana. Un “tradimento”, lo definì già nel 2021, sottolineando come Elkann avesse di fatto ceduto il controllo decisionale a Parigi, lasciando all’Italia solo le briciole e una crescente desertificazione produttiva. Da allora, la posizione di Calenda non si è mai ammorbidita. Anzi, si è rafforzata alla luce dei dividendi record distribuiti agli azionisti – oltre 23 miliardi di euro – a fronte di investimenti esigui in innovazione nel nostro Paese e una gestione che sembra aver premiato più la finanza che l’industria.

Ma il giudizio severo di Calenda si estende anche alla Ferrari, icona sportiva e simbolo dell’ingegneria italiana. Se è vero che la casa di Maranello continua a macinare utili e ad alimentare il mito del Cavallino, è altrettanto vero che in Formula 1 non si vince da troppo tempo. La gestione Elkann, più defilata e silenziosa rispetto a quella carismatica di Montezemolo, non ha ancora riportato la Ferrari al vertice delle classifiche sportive. Una mancanza che pesa nell’immaginario collettivo e che, per Calenda, rappresenta un segnale di un certo disimpegno o incapacità strategica.
Infine, c’è il capitolo Juventus, che Calenda usa quasi come una sentenza definitiva. “L’ultimo scudetto lo ha vinto Andrea Agnelli”, ha scritto nel suo post, sottolineando implicitamente il vuoto di leadership e risultati che ha segnato la nuova fase del club sotto la regia discreta ma influente di Elkann. Come se non bastasse, nella lunga lettera agli azionisti Exor pubblicata dallo stesso Elkann nel 2024, la Juventus non veniva nemmeno citata. Un silenzio che Calenda ha interpretato come la conferma di un disinteresse quasi imbarazzante, per una società che fino a pochi anni fa dominava la scena calcistica italiana e che oggi fatica a ritrovare ambizione e prestigio.
Nel suo attacco, Calenda non risparmia nulla. Né il merito industriale, né il ruolo sociale di chi, a suo giudizio, avrebbe dovuto difendere con ben altra forza i marchi italiani, i posti di lavoro, le radici produttive del Paese. Non è solo una questione di bilanci: è una questione di visione. Per il leader di Azione, Elkann incarna un modello di capitalismo distante, globalizzato, finanziario, che ha smarrito il legame con il tessuto industriale italiano. Un capitalismo che – pur sventolando tricolori nelle campagne pubblicitarie – nei fatti produce in Polonia, assume in Slovacchia e investe in Cina.
Le sue parole sono diventate, di fatto, un invito alla politica italiana a riaprire il dossier su Stellantis e sull’intero gruppo Exor. Calenda ha chiesto che Elkann venga convocato in Parlamento a riferire sulla gestione dell’industria nazionale, così come era accaduto per Carlos Tavares, l’amministratore delegato del gruppo automobilistico. Un atto politico che avrebbe il sapore della responsabilità, ma anche dell’opportunità: spiegare pubblicamente quale sia il futuro pensato per l’Italia in un’era in cui tutto, dalla transizione elettrica alla politica industriale, si gioca su scala europea e globale.
In fondo, la vera domanda che pone Calenda non è tecnica, ma identitaria. Può un gruppo come Stellantis, che nel nome porta ancora l’eco di Torino, considerarsi oggi davvero italiano? E se Ferrari e Juventus restano eccellenze che fanno battere il cuore degli italiani, quanto della loro guida è ancora radicata nei valori, nelle competenze e nella cultura che li hanno resi unici?
È su queste domande che si gioca il confronto. E forse anche il futuro dell’industria italiana. Elkann, finora, ha scelto la via della discrezione e del pragmatismo. Ma il tempo delle strategie silenziose potrebbe essere finito. Perché, come dice Calenda, quando in tre contesti tanto simbolici i risultati scarseggiano, è legittimo chiedersi se davvero “il problema sia al vertice”.

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