“Possiamo parlare di tartarughine? Facciamolo”. Con questo sfolgorante incipit prendeva le mosse l’editoriale del 22 agosto 2021 firmato dal direttore delle testate venete del gruppo Gedi, Fabrizio Brancoli. Il tema era serissimo, intendiamoci: l’epocale cambiamento climatico e annessi e connessi. Tuttavia oggi propenderemmo, in sua vece, a trattare l’altrettanto urgente problema della vendita dei quotidiani che putacaso dirige lui, cioè il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova Venezia e il Corriere delle Alpi, che assieme al Messaggero Veneto e al Piccolo di Trieste stanno per essere venduti al miglior offerente dal padrone John Elkann che non sa più che farsene. E c’è di più: secondo i comitati di redazione del gruppo editoriale, pure le ammiraglie Repubblica e La Stampa correrebbero il pericolo di cambiare proprietà. Le tartarughine restano importanti, per carità, ma qui a forza di andare piano, a quanto sembra non si è andati molto lontano.
E dire che, stando ai giornalisti oggi scioperanti immaginando i tagli in arrivo, appena un mese fa l’amministratore delegato di Gedi e fidatissima spalla di Elkann, Maurizio Scanavino, aveva assicurato che “il perimetro delle testate era definito”. Era obiettivamente difficile credergli. Una prima cessione di cinque giornali locali già nel 2020 (Il Tirreno, La Nuova Sardegna e i tre fogli emiliani, girati alla Sae di Alberto Lonardis) e l’anno scorso la rinuncia allo storico settimanale L’Espresso (andato a Danilo Iervolino, patron della Salernitana e imprenditore nel settore tech) avevano rappresentato dei fuochi d’allarme per i dipendenti della più grande holding editoriale italiana. Non si può proprio dire, insomma, che l’ipotesi di liquidare gli ultimi cavalieri Gedi non fosse nell’aria. Le dichiarazioni dei dirigenti aziendali, come sa un qualunque addetto all’informazione appena un po’ scafato, tanto più sono roboanti e rassicuranti, e tanto meno sono da prendersi come oro colato. Anzi, in genere prefigurano l’esatto contrario.
Certo oggi suonano come una beffa le frasi, tinte di caramellosa nostalgia, dell’imperatore Elkann in occasione del ventennale dalla morte del nonno Gianni Agnelli, l’ultimo 24 gennaio, a smentita delle voci sulla vendita dell’intero gruppo (“mirano a generare instabilità”). Anche se, a dire il vero, forse per un lapsus freudiano, il Real Nipote citava al primo posto delle postume soddisfazioni per l’Avvocato il ruolo di primo azionista nell’inglese Economist (“che lui leggeva ogni settimana”, figuriamoci). Ma in via diretta con la Exor, la holding-madre della casata. E Repubblica e La Stampa? Riguardo la prima, Elkann sottolineava i risultati positivi sul fronte web, forse per la potatura secca di due rami di Gedi Digital (con 65 persone dentro) avvenuta a dicembre. Strano, cedere parte di un centro di produzione ritenuto strategico. Quanto a La Stampa, che “ha mantenuto e manterrà quella tradizione laica, liberale e progressista” (e chi gliela tocca), ai tempi del patriarca Gianni era il secondo quotidiano dopo il Corriere della Sera, ora è quinto con appena 97 mila copie, incluse le digitali (dati settembre 2022). La Repubblica è scesa a 137 mila in tutto, dopo aver perso una schiera di firme di punta sistematesi per tempo altrove (Federico Rampini, Roberto Saviano, Gad Lerner), e, a fronte di due soli direttori nel primi quarant’anni (il fondatore Eugenio Scalfari e il successore Ezio Mauro), ne ha cambiati tre in soli sei anni (Mario Calabresi, Carlo Verdelli e Maurizio Molinari). Giusto per fare un raffronto, il Corriere viaggia a 262 mila copie, in leggera crescita rispetto al 2021.
La domanda allora non è perché l’impero Agnelli, con l’Ordine 66 di far fuori i Gedi, abbia deciso ora di liberarsi di organi d’informazione che non vengono più letti (La Nuova Venezia non arriva a 6 mila copie, cartacee e digitali), ma perché non dovrebbe farlo. Con la Juventus indebitata fino al collo (254 milioni di rosso, mai visto nella storia del calcio italiano) e travolta al vertice disintegratosi con l’uscita di scena di Andrea Agnelli, con le gatte da pelare nel business automobilistico, impelagato nel passaggio all’elettrico così irto di incognite, e mettiamo pure con il progressivo e inesorabile distacco della finanza di casa da un’Italia che non è più quella per la quale andava bene ciò che andava bene alla Fiat, visto che la Fiat non esiste più, tenersi sul groppone una batteria di giornali sulla via del declino sarebbe, dal punto di vista di chi deve fare profitto, un nonsense tafazziano.
Soprattutto visti i tentativi già falliti. Aver acquistato da Carlo De Benedetti la storica voce della sinistra liberal, la Repubblica, doveva servire a creare il New York Times italiano: bene, dopo tre anni gli abbonamenti digitali sono ben lungi dall’aver sfiorato l’obiettivo dei 500 mila entro il 2023. E mentre è più improbabile che Elkann si sbarazzi della torinese La Stampa, che resta pur sempre l’unico vero legame con la tradizione passata, l’autentico enigma riguarda proprio Repubblica ultimo baluardo Gedi. Una volta messi all’asta i locali, che fanno gola a cordate del posto (pare che la finanziaria Finint, con il suo giro di soliti imprenditori veneti, sia parecchio interessata, non escluso Enrico Marchi, amico di una vita di Giancarlo Galan), e dando generosamente per salvato il quotidiano di Torino, a chi vendere la creatura scalfariana priva ormai di lettori scalfariani, spazzati via dall’anagrafe e dalla linea turbo-atlantista benchè sempre, dio guardi, moralista di Maurizio “Zio Sam” Molinari?
Diciamola tutta: ma per quale motivo un imprenditore o un insieme di imprenditori dovrebbe investire oggi nell’informazione concepita alla vecchia maniera, sia pur con tutte le fanfare del digital di questo mondo? A livello local, si può indovinare il perché: ci sono fior di inserzionisti pubblicitari fra le multiutilities, così pingui di introiti grazie al caro-energia. E poi, il gioco a influenzare i poteri (politico, economico, mediatico) sul territorio viene più facile, data la corta distanza fra interlocutori. Ci sta, quindi, che non siano mancati e che non manchino gli acquirenti. Ma ingigantendo il fotogramma sul nazionale, come lucrare un tornaconto concreto con numeri così mortificanti? Dice: evidentemente agli editori basta utilizzare lo strumento-giornale per lanciare messaggi a chi manovra le leve, come se fosse sufficiente galleggiare nell’autoreferenziale Bolla, e per il resto chi se ne importa, se fuori dall’incantato mondo dei salamelecchi reciproci di lettori reali ce ne sono sempre meno.
Qui sta il punto: se sei un editore che ha rapporti d’affari tendenzialmente diretti con il pubblico e la politica (vedi Alfredo Romeo, nel giro degli appalti, con il Riformista e la nuova Unità, vedi gli Angelucci, i re della sanità, con Libero e, a quanto pare, anche con Il Giornale e forse pure con La Verità, se andasse in porto la compravendita), il prurito per avere a disposizione un braccio armato che può essere, a seconda dei casi, piuma o ferro, persiste. Perché tanto poi la Bolla, fatta di rimandi e inviti circolari fra tv, online, radio e social, ti fa apparire più seguito e importante di quel che sei nella realtà. Ma il giornalismo, in tutto ciò, dov’è? Sopravvive semi-nascosto fra le maglie di questo grande onanismo collettivo di media e mediatori, o meglio, di mediocri attori a cui il mercato, che è essenzialmente speculazione, va benissimo fino a quando non mette a rischio l’iper-tutelato posto, mentre a pelo d’acqua boccheggiano giornalisti precari e demoralizzati, pagati l’equivalente della merenda. Magari sì, il giornalismo è davvero morto, assassinato da internet (o Hitlernet, il genocida della conoscenza dove, per paradosso, se ne scovano ancora tracce preziose) e noi, illusi e aggrappati al passato, non lo vogliamo ammettere. Sì, il giornalismo è morto. Viva il giornalismo.