C’è chi si appella alla tutela del diritto italiano e chi invece spinge per allinearsi a quello europeo. Soltanto su un punto sono tutti d’accordo: l’omogenitorialità implica una battaglia di civiltà – da preservare o rinnovare. E l’ultimo round è andato al fronte conservatore, che al Senato ha bocciato la proposta di regolamento Ue in merito al riconoscimento dei figli di coppie gay e all’adozione di un certificato comunitario di filiazione. Il provvedimento, passato al vaglio dalla commissione Politiche europee, evidenzia un quadro politico spaccato in due: da una parte la maggioranza di centrodestra, che ha votato in blocco (11 voti) per la risoluzione presentata da Giulio Terzi, senatore di Fratelli d’Italia; dall’altra le opposizioni, altrettanto compatte (7 voti) nel manifestare il loro dissenso.
La tesi dei partiti di governo è che “l’obbligo di riconoscimento non rispetta i principi di sussidiarietà e proporzionalità”, si legge nel documento approvato. Inoltre si sottolinea come la Corte di Cassazione abbia “confermato la contrarietà all’ordine pubblico della maternità surrogata”, pratica attualmente illegale e che di fatto, al pari dell’utero in affitto, diverrebbe percorribile accogliendo il regolamento europeo. Pertanto in Italia resta sufficiente e soddisfacente, stando alla linea meloniana, lo status quo. E cioè “l’adozione in casi particolari” da parte di famiglie arcobaleno.
Durante la seduta, Pd, M5S e Terzo polo avevano tentato di ovviare al nodo legislativo. Secondo le contro-risoluzioni presentate, il certificato di filiazione non rappresenterebbe un’ingerenza di Bruxelles nel diritto nazionale. “Anzi”, la capogruppo dem Simona Malpezzi dichiara al Corriere della Sera, “avrebbe semplicemente riconosciuto lo status di figlio ottenuto nel proprio Paese europeo d’origine anche negli altri Stati dell’Unione. Opponendosi a questo principio si viola il diritto alla mobilità di due milioni di minori e si va a ledere i loro interessi superiori. Siamo sorpresi e amareggiati che la destra ci voglia far sedere vicino a Polonia e Ungheria”.
Che l’Italia sia tra i fanalini di coda del continente in tema di diritti Lgbtq e forme di procreazioni assistite è un dato pacifico. Nella più recente panoramica globale pubblicata dall’International lesbian and gay association (Ilga), il nostro Paese viene classificato fra quelli con “protezione limitata contro la discriminazione per l’orientamento sessuale”: in Europa soltanto altri sette (Grecia, Svizzera, Danimarca, Lettonia, Polonia, Ucraina e Moldavia; l’Ungheria ci è perfino sopra) ricadono nella stessa categoria. E il naufragio del Ddl Zan nel 2021 non ha contribuito a migliorare la situazione, con il solo matrimonio fra persone dello stesso sesso a essere costituzionalmente garantito.
Un quadro normativo reazionario, tuttavia, non significa rifiutarsi di fare i conti con il medesimo – dura lex sed lex, no? Il principale argomento sostenuto dalla comunità Lgbtq è l’automatica necessità di estendere all’Italia un regolamento ormai largamente maggioritario all’interno dell’Unione europea. Ma è una rivendicazione giuridicamente fragile: si pensi alla costellazione di leggi federali statunitensi, che rendono l’ordinamento quanto più frammentato da Stato a Stato. E il rischio, in questi casi, è fare il passo più lungo della gamba. Pur con le migliori intenzioni.
È quel che sta succedendo a Milano, dove lo scorso luglio il sindaco Beppe Sala aveva annunciato il riconoscimento su tutto il territorio comunale di bambini e bambine nati da coppie omogenitoriali, con tanto di trascrizione dei certificati di nascita esteri. Adesso, contestualmente alla votazione in Senato, la prefettura ha chiesto e ottenuto la sospensione delle registrazioni. Sala promette che “a questa decisione dolorosa seguirà uno scontro politico”. Resta però la forzatura della manovra, che dopo sei mesi di liberalizzazioni è sfociata nell’illegittimità – domanda seguente: saranno annullati anche i certificati rilasciati finora? Si capisce allora il rimprovero dei meloniani: “Mai piegare il diritto alle battaglie ideologiche”. Prima occorre intervenire in Parlamento. E il Parlamento si è espresso con chiarezza. Piaccia o no.