“Sulla Piazza Rossa di Mosca, ampia, immensa, autenticamente russa (…), si affaccia il Cremlino dalle mura di pietra verde, con le sue guglie, le torrette, le croci e i palazzi. Accanto alla bandiera rossa illuminata dalla luce elettrica, simbolo della Russia comunista, che sventola nella notte sulla città come una torcia accesa, innalza il suo grido verso il cielo la vigorosa aquila bicipite, il simbolo della Russia del passato, degli zar e della Chiesa ortodossa. (…) Che miscuglio fantastico di moderno e antico in un’unica terra, in un unico luogo, a distanza di un solo passo!” (La nuova Russia, Israel J. Singer, 1926-27)
Che poi, che cos’è per davvero la Russia? È difficile dare una risposta univoca, definita e precisa, che sia valida per tutti. È quell’enorme e sconfinata distesa, un po’ europea e molto asiatica, che si estende dal Mar Nero al Giappone; è quella terra così fredda e inospitale nelle sue steppe, nelle sue guglie dorate e nelle barbe dei suoi pope ortodossi dalle nere e lunghe vesti; è l’austera Mosca, la principesca San Pietroburgo, la gelida Siberia; è quella severa madre per alcuni, terribile matrigna per altri, dai remoti e inavvicinabili confini - tanto geografici che ideologici - di cui si è sempre parlato tanto, e di cui si continua a parlare ancora di più oggi. Proprio in Russia, o meglio in Unione Sovietica, quasi cento anni fa, (più precisamente fra la fine del 1926 e il 1927) si recò Israel Joshua Singer, in un lungo viaggio alla scoperta della vita nel nuovo "paese dei Soviet", per quello che diventerà il suo libro La nuova Russia. Il libro torna oggi nuovamente disponibile in prima edizione mondiale grazie ad Adelphi, con la cura di Elisabetta Zevi, traduzione di Marina Morpurgo, e con una nota conclusiva a firma di Francesco M. Cataluccio.
Israel J. Singer (1893-1944), nato Yisroel Yehoshua Zinger a Biłgoraj (Polonia), fu uno scrittore e giornalista polacco di cultura yiddish, che nel corso sua vita visse e lavorò fra Polonia e Unione Sovietica, fino a quando nel 1934, emigrò negli Stati Uniti. Fratello maggiore di Isaac Bashevis Singer (premio Nobel per la letteratura nel 1978), è stato recentemente riscoperto prima in Francia e poi anche in Italia, grazie al suo romanzo La famiglia Karnowski (Adelphi). Eppure, La nuova Russia non è un “classico” romanzo, ma è piuttosto il dettagliato e minuzioso reportage di un giornalista e attento osservatore; questo anche perché per il suo viaggio in Russia - o meglio, in quello che allora, nella seconda metà degli anni Venti era divenuto il "paese dei Soviet" – Israel J. Singer fu inviato come reporter del quotidiano yiddish newyorkese Forverts, con l’iniziale intento di indagare sulla vita e la cultura ebraica nelle terre sovietiche, dopo la fine dei terribili pogrom degli anni 1918-1921 e della sanguinosa guerra civile. Quello non fu però il suo primo viaggio in Unione Sovietica, dato che vi si era già recato anche durante i folli anni della Rivoluzione d’Ottobre, quando i bolscevichi presero il potere allo zar Nicola II. Fra il 1926 e il 1927, I. J. Singer tornò dunque in Urss per vedere com’era cambiato nel corso di dieci anni quel nuovo Paese, in cui, una volta smantellato il regime zarista e instaurato quello nuovo - prima sotto la guida del rivoluzionario Vladimir Lenin (scomparso nel 1924) e da poco sotto la guida del serio, ma ancora quasi insospettabile Yosif Vissarionovich Dzughashvili (meglio noto come Stalin) - vigeva ora la Nuova Politica Economica (NEP). Quale fu però allora il suo giudizio su questo nuovo Stato? Da iniziale sostenitore delle Rivoluzione bolscevica, dopo il viaggio del ’26-’27 Singer rimase in realtà un po’ deluso nelle sue aspettative, dato che non ritrovò pieno riscontro nella realtà di quell’iniziale e imponente ideale socialista, seppur fu colpito dalla diversità e dall’organizzazione che vigevano in alcune aree.
Nel suo grande viaggio, l’autore non si fermò solo a Mosca, ma visitò anche molte altre città delle odierne Russia, Bielorussia e Ucraina, fra cui Kiev, di cui scrisse: “Questa città ha subito un’ingiustizia. Abituata per anni a essere capitale, non riesce ad accettare il nuovo ruolo di città di provincia”, preannunciando, seppur debolmente, alcune tensioni che a cent’anni di distanza, dopo il crosso dell’Urss, sono inesorabilmente implose, fino ai giorni nostri. Il viaggio prosegue poi anche a Minsk, Odessa, Char’kov, Bobrujsk, Ekaterinoslav, Berdicev e perfino in Crimea, fra grandi città, villaggi contadini, colonie agricole, di pionieri, di ebrei e di comunisti, spostandosi per lunghi mesi e migliaia di chilometri. Se nei suoi intenti I. J. Singer voleva in un primo momento scoprire "solo" le peculiarità della cultura ebraica sovietica, nel suo viaggio in arriverà in realtà a vedere e documentare molto di più: fra incontri con gente comune, lavoratori delle nuove grandi fabbriche, agronomi, tassisti, comunisti convinti ed esponenti delle numerosissime minoranze, sia etniche che religiose (fra tatari, polacchi, tedeschi, bulgari, moldavi, greci, armeni, georgiani, siriaci, lituani, cechi, estoni, zingari e molti altri) in quello che si delinea come un macroscopico e variopinto mosaico, ricolmo di sorprese e contraddizioni.
Sullo sfondo dell’allora nascente apparato burocratico sovietico, affiancato da un potere centrale sempre più sconfinato, la Russia di ieri, diventa allora un po’ simile e quella di oggi; e laddove novant'otto anni fa vigeva la parola di un intransigente, temutissimo e folle leader, come lo divenne poi Stalin, allo stesso modo, vige oggi la parola e di Vladimir Putin, che in molti modi assomiglia al suo temuto precedessore, a dimostrazione del fatto che nonostante il passare dei decenni e dei diversi sistemi politici, la Russia torna sempre un po’ simile a sé stessa: nella sua impermeabile struttura, nella ciclicità della sua storia e nella chiusura dei suoi confini. Anche se, a differenza di oggi, la Russia di ieri negli occhi di Singer era in grado di donare una speranza: quella che qualsiasi cosa si veda e si viva in un Paese come la Russia (quells di allora), non si avrà mai una visione completa e totale, ma solo un piccolo scorcio su tanti mondi diversi, che pur apparendo a primo impatto inavvicinabili, rimangono pur sempre eternamente affascinanti.
“«Che ne pensate di noi? Che opinione vi siete fatto della questione ebraica qui da noi?». Cosa dovrei dire? Nel giro di alcuni anni sono stati sistemati a lavorare la terra centocinquantamila ebrei, decine di migliaia di ebrei sono entrati nelle fabbriche e negli uffici, duecentomila bambini ebrei frequentano scuole ebraiche, sono state create dozzine di tribunali ebraici, consigli, distretti – sono cifre lusinghiere! Avanti così per altri vent’anni, e in Russia non esisterà più una questione ebraica. La neve cade fitta, il gelo si rafforza. Le campane delle chiese suonano, il Dnepr è coperto di ghiaccio e dalle colline la cattedrale di San Vladimiro proietta un’ombra nera sulla neve candida del pendio sottostante. Dei cattolici devoti trascinano rami di sempreverdi per decorare le case in vista del Natale, e l’Armata Rossa marcia accompagnandosi con canzoni ucraine, nostalgiche e languide. Il treno diretto al confine è vuoto.” Scrive malinconico l’autore, trasportandoci in un’atmosfera lontana, immortale e profondamente russa, dove però sorprendentemente, a differenza di oggi, le canzoni ucraine, i bambini ebrei e perfino l’Armata Rossa, riescono, in qualche strano modo, a coesistere pacificamente.