Pensate sia possibile leggere oggi, a 57 anni dalla morte di Luigi Tenco, un testo che non parli di Tenco a partire dalla sua tragica morte avvenuta nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo? Un libro che addirittura si ferma prima della polemica ancora arroventata e dell’investigazione morbosa e dietrologica? Ebbene sì, “Lontano lontano. Lettere, racconti, interviste” (Il Saggiatore) è quel tipo di volume. Perché a curarlo sono stati Enrico de Angelis – giornalista, storico della canzone, e per 20 anni direttore artistico del Club Tenco – ed Enrico Deregibus – giornalista e biografo di Francesco De Gregori –, ma a scriverlo, di fatto, è stato Tenco medesimo. Le parole sono quasi sempre le sue, siano esse parte di un’intervista, di una lettera privata, di un tema scolastico o di un qualsiasi gesto creativo. “Lontano lontano” è corposo (440 pagine), ma forse la ragione di tante pagine potrebbe non riguardare solo la mole di materiale accumulato e ordinato da de Angelis e Deregibus. Ci potrebbe essere un’altra, più sottile, questione di mezzo. Ossia, la “reputazione” di cui ha quasi sempre goduto Tenco, in particolare dopo la morte. Una reputazione monocromatica e fissa. In realtà non del tutto azzeccata – anzi –, quasi si fosse voluto fare di Tenco uno stereotipo. Il cantautore impegnato, sì, ma soprattutto l’artista cupo, musone, “difficile”, quasi antisociale. Uno stereotipo così testardamente promosso, negli anni, da rendere necessarie 440 pagine che non sovvertono nulla (Tenco non ci viene presentato come il Gino Bramieri che non abbiamo mai saputo cogliere), ma raddrizzano potentemente il tiro.
Le interviste, che vanno dal 1961 al 1967, sono abbastanza rivelatorie. Tenco sfida i giornalisti, spesso inclini a volerlo inchiodare al muro del dolore. Lui ci prova, invece, a smarcarsi, non ci sta a farsi passare per un Leopardi della canzonetta. Così elogia i Beatles, che all’inizio aveva criticato, difende i capelloni, esibisce una modernità spesso equivocata o non raccolta. “La mia più grande ambizione è quella di fare in modo che la gente possa capire chi sono io attraverso le mie canzoni, cosa che non è ancora successa”, dichiarò a Sandro Ciotti nel 1961. Era quello il suo scopo ultimo, che poi è stato lo scopo, più o meno manifesto, di qualsiasi cantautore che abbia iniettato sangue nella penna stilografica. Eppure, quando affermava cose simili, Tenco suonava “strano”, come se volesse troppo. Difende anche Bob Dylan, salvandolo dall’accusa di ipocrisia: “Ha capito che gli strumenti per comunicare con la gente sono quelli […] Il menestrello che oggi va a cantare sotto le finestre non dice niente, non serve a niente”. Dylan, per Tenco, non è un profeta venduto al mercato, solo una voce importante che ha scelto i canali giusti attraverso cui farsi ascoltare. Scopriamo spesso, in queste centinaia di pagine, un Tenco tenero (con la madre, specialmente, alla quale scriveva lettere accorate), ma anche obbligato a spiegarsi, giustificarsi, lottare contro la stressante pigrizia dell’aggettivo “triste”.
Sovente risponde alle domande con altre domande: “Insomma, cosa dovrei fare per non essere un “problema”? Suonare twist, hully gully e surf?”. Che poi il succo – stranamente acido per alcuni cavillosi osservatori – era questo: “Io non faccio il cantante, faccio solo il Luigi Tenco”. Dichiarazione forse un po’ sbruffona, ma clinica. Chi spesso ha lasciato un segno nella storia della canzone, ha fatto innanzitutto sé stesso. Raccontandosi, romanzandosi, gettando inequivocabili tracce di sé – più o meno manifeste o astratte – nei versi e nelle melodie. Tra i giovani cantautori italiani aveva già mirato un Lucio Dalla ben lontano da quei successi che avrebbero abbracciato un intero Paese. E sull’industria discografica aveva idee chiare, provocatorie, quasi pasoliniane: “In Italia, purtroppo, il grosso sbaglio è quello di guardare al mercato mondiale e imitarlo, quando ci sarebbe da noi un patrimonio musicale vastissimo e pieno di folklore”. Moderno, sfuggente, troppo obliquo per un giornalismo impreparato a narrare il rapidissimo evolversi della pop music, Tenco emerge da “Lontano lontano” come uno spirito quasi Cave-iano che fin dall’inizio aveva capito quanto sarebbe stato arduo farsi capire. “Non capisco cosa vi lasci pensare ch’io sia un giovane arrabbiato. Forse perché non sono sempre sorridente? Oppure perché non rido rumorosamente ad ogni sciocchezza? O è perché preferisco portare una maglietta scura al posto di una maglietta bianca?”. Se questa era l’aria che tirava attorno a Tenco – parliamo di anni in cui un certo esistenzialismo intellettualoide andava anche di moda –, non crediamo che a Tenco, fosse anche nato un paio di decenni dopo, sarebbe andata meglio.