Giacomo Abbruzzese è un regista, fotografo, sceneggiatore di grande successo, tra i talenti che questa Madre Italia non è riuscita a trattenere troppo a sè. Soltanto nel 2013 si è aggiudicato il Nastro d’argento per il miglior cortometraggio con Fireworks e dieci anni dopo l’Orso d’argento per il miglior contributo artistico con il suo primo lungometraggio Disco boy (in particolare per la straordinaria fotografia di Hélène Louvart). Abbruzzese è uno spirito libero che subito dopo l’università ha deciso di lasciare l’Italia per lavorare come fotografo tra Israele e Palestina, dove ha girato Archipel, un corto su un giovane palestinese di nome Abed che attraverso il sistema fognario, entra illegalmente a Gerusalemme Ovest passando sotto il muro che divide la città. Durante la serie di incontri Diaspora degli artisti in guerra, al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, Abbruzzese ha spiegato che con Archipel voleva raccontare la storia quotidiana di un uomo che per necessità è costretto a cercare continuamente punti di ingresso e di uscita “fino a perdersi in un territorio che lui stesso non riconosce più, negando l’attuale partizione politica del territorio”.
Secondo il regista David Lynch esistono altri mondi oltre a quello in cui viviamo anche se non li abbiamo ancora sperimentati. E allora forti della consapevolezza che noi, quei mondi, li vogliamo conoscere per davvero, guardiamo al cinema di Abbruzzese proprio come una risorsa, una realtà familiare e “altra” insieme. Il regista made in Taranto è riuscito a creare un suo immaginario (e una precisa cifra stilistica) partendo da spunti di vita vera a cui poi aggiunge uno strato di irrealtà, finzione o magia. L'esempio perfetto è Disco boy, il suo primo lungometraggio di guerra atipico in cui due ragazzi, Aleksei e Jomo, uno bielorusso e l’altro nigeriano, sfidano la vita cercando di resistere, il primo senza la paura di perdere nulla (perché non possiede niente), il secondo con l’intento di difendere le sue tradizioni e la sua comunità dagli attacchi esterni. A proposito di questi e altri protagonisti dei suoi film, il regista ci ha svelato che: “Mi sento un po' tutti i personaggi che creo”. E sull’Ex Ilva di Taranto, tema centrale in uno dei suoi primi cortometraggi Fireworks: “Ho preso coscienza del livello di atrocità dell'Ilva solo dopo essere stato in Israele e Palestina”. Ecco cosa ci ha raccontato sull'avvento dell'intelligenza artificiale, la televisione italiana, il cinema di Alice Rohrwacher e sul tax credit...
Ciao Giacomo. Durante la presentazione del tuo corto Archipel hai detto di aver rivisto di recente tutto i tuoi cortometraggi (Archipel, Stella Maris, Fireworks, This is the Way, I santi). Ti chiedo c’è qualcosa di ciò che hai fatto che oggi cambieresti?
A livello registico e tecnico ci sono sempre aspetti che si possono migliorare. Altrimenti, se pensassi che tutto quello che faccio è perfetto, smetterei di fare film. Però mi capita anche di pensare: “Che bella idea ho avuto 12 anni fa!”. Di certo, a distanza di anni, non cambierei mai l'approccio al soggetto e alla storia che voglio raccontare, sono aspetti che ho sempre difeso con convinzione.
In Archipel hai raccontato di Israele e Palestina e dei rischi che ti sei preso tu per girare il film e gli attori per recitare. Anche con il tuo successivo cortometraggio Fireworks, che tratta il tema spinoso dell'Ex Ilva di Taranto, senti di aver rischiato?
Quando ho concepito e girato Fireworks la questione dell'Ilva di Taranto era quasi invisibile. Io stesso, paradossalmente, ho preso coscienza del livello di atrocità dell'Ilva solo dopo essere stato in Israele e Palestina. Vivere lì è stata un'esperienza che mi ha insegnato a vedere il mondo in modo diverso e a non dare nulla per scontato. Tornato a Taranto mi sono chiesto: come mai nessuno ne parla? Solo pochi illuminati, visti come eretici, osavano questionare lo status quo che sembrava e sembra tutt'ora inevitabile.
Pochi parlavano dell'Ex Ilva come in pochi oggi raccontano in maniera neutrale ciò che sta accadendo in Medioriente?
C’è sicuramente una linea politica dettata dagli editori che hanno interessi, i giornali sono sempre meno indipendenti quindi il racconto di un conflitto non viene fatto quasi mai in maniera neutrale. Basta accendere il televisore o aprire un giornale e vedere quanti intellettuali israeliani vengono intervistati e quanto la società civile palestinese non venga praticamente mai interpellata.
Com’è stato girarlo? E quali sfide hai incontrato lungo il percorso?
Volevo, grazie al cinema, sfidare le restrizioni e consentirmi di vedere e filmare degli squarci che altrimenti erano proibiti per restituirli a una collettività. All’epoca non c’erano ancora i droni e io mi ero messo in testa l’idea di fare una scena aerea sopra l’Ilva, per mostrarne l'estensione mostruosa. All'epoca anche Google Maps sfocava l'area sopra la fabbrica, per segreto industriale e militare. Decisi così di affittare un elicottero in un’altra città e comunicammo alla torre di controllo un percorso finto, in modo da far finta di sbagliarci e finire sopra l'Ilva. Salimmo a bordo di questo elicottero che sembrava più una “scatola di scarpe” (ride, ndr) e con una camera sospesa nel vuoto abbiamo iniziato a riprendere. A un certo punto però abbiamo perso rapidamente il segnale video e io non riuscivo più a vedere quello che giravo. Dovevamo quindi sporgerci nel vuoto a turno io e il direttore della fotografia per guardare in camera e capire cosa stavamo girando. Passando sopra l’Ilva, tutte le esalazioni, i fumi neri, ci sono entrati in cabina e penso che per questa impresa avrò perso cinque anni di vita (ride, ndr). Abbiamo fatto una cosa certamente illegale, ma le immagini che abbiamo ripreso sono in qualche modo storiche, sono parte di una memoria collettiva, perché nessuno aveva mai visto l’Ilva dall’alto. Ti consentono di vedere quanto sia grande l'area della fabbrica, ben tre volte la città.
E poi una volta finite le riprese?
Terminato il corto, decisi di farlo uscire prima all'estero, per evitare o posticipare un potenziale sequestro di quelle immagini dall'alto. Dopo un giro di festival internazionali che servivano comunque a proteggere il film, ero pronto a far uscire il film in Italia. Ci fu una risposta bellissima del pubblico, lo proiettammo per tre giorni a Taranto e persino la proiezione di mezzanotte era sempre stracolma. La gente veniva per vedere saltare in aria la fabbrica! E poi accadde l'inimmaginabile. Tutti i vertici dell’Ilva furono arrestati per disastro ambientale, fu una congiunzione astrale incredibile.
In un corto di Vincenzo Giordano dal titolo La notte è un giorno dispari, il Vesuvio esplode. La sua idea nasce da spunti autobiografici perché il regista stesso è cresciuto con questa paura che prima o poi il Vesuvio potesse esplodere davvero. Tu hai vissuto con lo stesso pensiero fisso guardando l'Ilva?
Da ragazzini a Taranto abbiamo pensato diverse volte, come una sorta di sogno nero, "e se un giorno saltasse in aria la fabbrica?”. A volte credo il cinema debba intercettare quel tipo di subconscio collettivo per trasformarlo in qualcosa di visibile.
Nel tuo primo lungometraggio Disco Boy vincitore dell'Orso d'Argento per il Miglior Contributo Artistico i protagonisti sono: Aleksei, un ragazzo bielorusso orfano e Jomo che vive nel Delta del Niger ed è molto attaccato alla sua famiglia. Che rapporto hai te con i personaggi e con il concetto di “radici”?
Mi sento un po' tutti i personaggi che creo. Cerco di immergermi in diversi contesti e storie di vita, trovando sempre qualcosa che mi riguarda direttamente nei personaggi a cui do vita. Nella questione di Jomo nel delta del Niger riecheggia Taranto, sebbene con una violenza politica diversa e contingenze specifiche. Credo che le tradizioni e in particolare le ritualità possano essere importanti, non devono essere stigmatizzate necessariamente come qualcosa di passato e di conservatore. Viviamo in una società sempre più individualista e stiamo perdendo la dimensione del sacro. Non significa per questo annientare l'io nella collettività, ma avere consapevolezza che siamo tutti interconnessi. Non può esserci la mia felicità se accanto a me c'è orrore e disagio. Può sembrare una banalità, ma è un concetto che dobbiamo ricordare. Dovremmo rinunciare a una parte della nostra qualità di vita e ai privilegi che abbiamo per costruire un mondo che possa durare più a lungo e in modo migliore.
Disco boy, ci spieghi la storia e il significato di questa danza mistica e tribale nel film?
Volevo che questa danza unisse la terra con il cielo, culminando con una rivoluzione attorno a un centro. Ho dato queste indicazioni a Qudus Onikeku, il coreografo nigeriano del film, un artista che ha un approccio universale, che crea una danza arcaica e contemporanea insieme, capace di andare al di là di un determinato spazio e tempo.
Cosa ne pensi del famigerato avvento dell’intelligenza artificiale nel cinema?
Per scrivere format molto banali credo che l'Ai possa essere utile. Tuttavia, ho difficoltà a immaginare come un prodotto più autoriale possa essere riprodotto con l'intelligenza artificiale. È come se gli mancasse l'idea di poesia. È vero che potrà aiutare per gli effetti speciali, ridurrà dei costi, ma dobbiamo considerare anche il rovescio della medaglia: la perdita di posti di lavoro. La tecnologia ha sempre avuto questo impatto, e oggi, con l'estrema rapidità dei cambiamenti, è difficile avere una regolamentazione che tenga il passo. Credo che l'Ai possa essere uno strumento, ma tutto dipende da come viene utilizzato e in che direzione lo orientiamo.
Quali sono le differenze tra un giovane regista emergente oggi rispetto a ieri?
Io sono dovuto andare via, perché un percorso come il mio in Italia sarebbe stato ancora più difficile. Non so se prima era meglio o era peggio, in generale posso dirti che quando volevo fare Disco Boy, anche in Francia mi dicevano che un film del genere si sarebbe potuto fare solo in passato. Adesso il cinema è in una situazione di fragilità dove regnano le serie e una persona che vuole fare cinema talvolta ha difficoltà anche a trovare i tecnici. Siamo in una fase di trasformazione in cui il cinema è in una posizione di resistenza.
Cosa possiamo fare per risollevare la situazione?
Bisogna inventare nuove maniere, credo che il cinema debba riformarsi come luogo di fruizione, la gente non ha voglia di farsi mezz’ora di macchina e spendere dieci euro per andare a vedere un film. Bisogna cambiare i cinema, far sì che siano un luogo dove una persona voglia passarci tutta serata. Con un'area bar per esempio, in cui hai voglia di restare e scambiare due parole con le altre persone che hanno visto il film. Dovrebbe ritornare ad essere un luogo d'incontro, un’esperienza veramente collettiva, altrimenti come pretendiamo possa funzionare? La sala deve cambiare perché il mondo è cambiato.
Gli spettatori italiani nell’ultimo anno e mezzo sono tornati nelle sale per vedere diversi film con spunti e temi sociali. Cosa promette il cinema Italiano?
Credo che a volte ci sia la tendenza da parte di qualcuno di rincorrere la sensibilità del momento, come ha sempre fatto la televisione. Il cinema invece per sua struttura, tempi, dovrebbe avere una capacità di mantenere una sorta di distanza, una prospettiva più ampia e complessa. L’interesse del cinema per me non è il soggetto. Ma come lo approcci, lo tratti. La gente oramai si è abituata a un modo di fare un'immagine, di raccontare una storia, di recitare, che è televisivo. E quindi anche il successo di alcuni film italiani potrebbe essere legato a questo. È come se fosse un altro sport. Poi il cinema non può essere solo art house, il cinema è bello in quanto vario ma deve difendere una sua specificità di racconto, di immagine.
Cosa ne pensi di Alice Rohrwacher e della distribuzione del suo film La chimera?
Alice è una delle migliori registe della sua generazione, amo molto il suo lavoro. Purtroppo pensare che un film come La chimera, nelle condizioni attuali, esca in più di 70/80 copie in Italia è utopia. Un certo linguaggio di cinema d’autore, molto poetico, è difficile trovi un'enorme diffusione in un singolo Paese. Ciò che uno può sperare come regista o come produttore è che quel film esca in tanti Paesi e abbia tante nicchie di pubblico. Poi certo, se tu hai un film come Disco Boy che vedono magari solo diecimila persone al cinema nel tuo Paese un po' ti prende male. Questo tipo di cinema che facciamo noi è raro che abbia un grande seguito, accade solo rare volte l’anno, come è accaduto con Anatomia di una caduta, ad esempio che ha avuto un successo sorprendente, o con l’ultimo film di Jonathan Glazer. Ma non è un problema solo dell'Italia; in Francia va un po' meglio ma negli Stati Uniti questi film sono ancora meno visibili.
Ti senti vicino al cinema di Alice Rohrwacher?
Certamente, lei e Pietro Marcello sono tra i registi italiani contemporanei che sento più vicini al cinema che faccio.
La regista ha recentemente sostenuto che “c’è stanchezza in tante programmazioni cinematografiche” e che forse la colpa se non si va più al cinema è anche di chi gestisce le sale. È vero?
Credo che i proprietari dei cinema scelgano i film in base a ciò che pensano - magari anche sbagliando - sia adatto al loro pubblico e li faccia incassare. In Italia, sono pochi i cinema che si prendono rischi maggiori con un approccio più cinefilo. Poi, ed è un altro discorso, penso sinceramente che ci siano troppi film e pochi soldi per realizzarli bene. Dire "noi abbiamo prodotto 100 film quest'anno" può sembrare positivo, ma che tipo di film sono? Chi li ha visti? Non ha senso produrre tanto se poi, quando i film vengono realizzati, lavoriamo con l'angoscia per la scarsità dei mezzi. Sulla carta può sembrare una cosa bella, ma se si producono più film e poi non vengono visti, significa che l'equazione è da rivedere.
È il caso di ridurre il tax credit?
Secondo me ci vuole un organismo indipendente che gestisca i fondi pubblici per il cinema, che resta forte e costante nella sua programmazione al di là dell'alternanza politica, come su modello del Cnc in Francia. E poi ci vuole l'educazione all'immagine nelle scuole, indispensabile ad approcciare il contemporaneo in maniera critica e attiva. E bisogna portare il cinema a scuola, e i ragazzi al cinema. Ma non è un discorso che riguarda solo il cinema, penso lo stesso della musica. Io ho avuto una formazione scientifica, ma è indispensabile coltivare, sin dall'inizio, un approccio anche umanista e artistico al mondo.