Si sta come la Parietti, all’Ariston, in seconda fila. Il Festival di Sanremo (che, per le sue due prime serate era parso più come un talent per conduttrici scarsine) è arrivato alla sua quinta serata finale: Amadeus Ter ce l’ha fatta (tenendo ufficialmente a battesimo televisivo il figlio Josè - ora lo sappiamo, esso parla -), tassa Fiorello pagata, obolo promozione fiction Rai smunte coming soon pure, durata non XXL (se ne è stupito lo stesso conduttore: “All’1.10 sono già a leggere la classifica conclusiva? Non ci credo: per me è pomeriggio!”), ascolti record. Tutto è bene ciò che finisce bene, dunque? Sì e no. Se gli undici milioni di telespettatori (una media, una stima, comunque parecchia gente davvero) avranno sicuramente avuto le loro ragioni per premiare la kermesse, e oggi siamo qui, insindacabilmente, a celebrare un successo televisivo coi fiocchi, tocca però dire che un po’ spiace. Spiace ciò che nessuno dice ma che si impone, nascosto in piena vista: ‘sto Festival l’ha vinto la canzone più paracula su altri 24 brani alle volte solo sciapi, tutte le altre decisamente horror. Ma torniamo ai vincitori: Mahmood e Blanco con Brividi. Al netto dello splendido pezzo portato all’Ariston, cosa troviamo di furbetto nella loro interpretazione, tanto da renderceli quasi indigesti?
Partiamo, per far bene il quadro, da un piccolo focus sui due trionfatori: Mahmood, 29 anni, ha vinto il suo primo Festival (infiltrandosi all’Ariston dalle retrovie di Sanremo Giovani) con Soldi (clap clap), anno del Signore 2019. Da lì, l’imbucato che strabuzza gli occhi quando scopre di aver vinto la kermesse, diventa star: Eurovision Song Contest (dove si piazzerà secondo), uno dei suoi nuovi singoli, Rapide, viene scelto da Barbarella d’Urso per accompagnare le sfilate in studio della madre di Luigi Favoloso, il primo disco, Gioventù Bruciata (è disco di platino aka + di 50mila copie vendute - in un mese! -).
Insieme a lui per questa seconda, di nuovo vincente, tornata all’Ariston troviamo Blanco, rapper emergente (ma già seguitissimo) sbucato fuori dal bresciano: classe 2003, è noto soprattutto per il brano-vuvuzela sulla tipa che lo fa impazzi-i-i-i-i-ire. E adesso anche per aver trionfato al Festival di Sanremo. A 19 anni scarsi. (Clap clap).
Ora veniamo alle note dolenti, premettendo però che Brividi, la canzone portata dal duo in gara sul palco dell’Ariston, sia stata una folgorazione fin dal primo ascolto. Alla loro seconda esibizione (durante la terza serata del Festivàl) , il pubblico del Teatro era già in standing ovation, implorando un bis. Viene da crederci: si trattava, in ogni caso, dell’unico brano oggettivamente bello dell’intera kermesse. Finito quello, ad andar bene, entrava a schiaffo Tananai. Però però… qualcosa che conferisce a questa vittoria un sapore di plastica resta. E forse lo abbiamo individuato: sta tutto nella narrazione.
I due artisti che passeranno alla storia come primi in assoluto a stravincere la kermesse grazie allo jodel (di Mahmood, ovviamente), hanno portato in scena, per outfit, movenze e sguardi languidi, una storia d’amore: i loro movimenti sul palco, durante la perfomance, erano quelli di due amanti che si cercano, sì, ma non si sa se riusciranno a (ri)trovarsi davvero. Ricordate la tenerezza dei Coma Cose, i due fidanzatini della scorsa edizione che hanno cantato la loro Fiamme negli occhi l’una rivolta verso l’altro fino a tenersi la mano per tutto il tempo dell’esibizione? Ecco, immaginatevi una cosa così. Però, finta. Vi avrebbe dato lo stesso senso di credibilità, la stessa emozione?
Ecco, tutto ciò che Mahmood e Blanco hanno fatto sul palco (tra cui portarci, in finale, due bici tutte tempestate di piume di struzzo - d’ali d’angelo? - sul palco per poi lì parcheggiarle ancora prima dell’inizio della perfomance vocale) è risultato un filo forzato, atto a portare “quel messaggio lì”, non tanto perché legittimamente meritevole di attenzione, ma perché questo è il trend e guardi cosa tocca fa’ per vendere due copie in più, signora mia. Anche le T.A.T.U. (esiste, naturalmente, pregevole meme d’accostamento tra i due casi) un numero di anni fa che è meglio lasciar celare dalla prescrizione, solevano limonar duro per tutto il video di All the things she said e, qui la differenza, si presentavano al pubblico come amanti. Venne fuori che il loro amore fosse vero quanto le doti vocali dei Milli Vanilli e questo stroncò sul nascere qualunque possibilità di carriera per le due ragazze. Una prece. Il paragone regge, però, perché la discografica o chi per essa aveva scelto per il duo di fanciulle russe questa immagine lesbo-chic per… vendere. O, a dirla più brutale ma non meno vera, per fare fanservice ai maschietti da casa. Si può serenamente dire che Brividi, almeno stando alla narrazione con cui ci è stata presentata, abbia rispettato entrambi questi goal. E ciò annette una pinna da squalo all’intera operazione, soprattutto se consideriamo che Brividi avrebbe trionfato in ogni caso in mezzo all’agonia dei claudicanti brani in gara. Ma tocca essere omoerotici perfino nella serata Cover e Duetti dove i nostri hanno stuprato Il cielo in una stanza pur di scambiarsi orchestrate occhiate languide. Anche se non stanno insieme.
Partendo dal fatto che se volete un filo di sostanza, di verosimiglianza sul tema, potete andarvi a recuperare la sanremese Il Postino (Amami uomo) di Renzo Rubino (artista e paroliere da sempre forse fin troppo sottovalutato), andiamo ora a vedere perché Mahmood ci è parso forzato nelle vesti con cui si è presentato all’Ariston: prima di tutto, l’artista dal 2019 a oggi è spesso stato in conflitto con la comunità LGBTQ+: già nel corso della conferenza stampa per l’Eurovision Song Contest, aveva pronunciato forte e chiaro il suo “niet” al coming out da parte di personaggi famosi vedendosi rispondere dall’imbufalita community arcobaleno: “Hai perso un’occasione per stare zitto”, tra un improperio e l’altro. Solo ad aprile 2021, fa peggio: intervistato in merito al dibattito sul DDL Zan, risponde chiosando che, in ogni caso, “l’omosessualità è una scelta. A volte ci si nasce proprio”. Una scelta? Vi lasciamo immaginare la, giustissima, reazione degli attivisti rainbow. Nel mezzo, di gaffe in gaffe, l’endorsement a Gué Pequeno quando aveva dichiarato (in aperto dissing con Ghali) che “Vedere un rapper che va in giro vestito da donna con la borsetta mi fa ridere”. Invece di unirsi al coro di indignazione nato intorno a questo tweet oppure, più elegantemente, tacere, il cantante sardo-egiziano è entrato nel dibattito difendendo Guè: “ha solo espresso un punto di vista”. Infine, in diverse occasioni pubbliche, a domanda diretta, ha sempre risposto che non avrebbe mai rivelato il proprio orientamento sessuale perché, giustamente, ininfluente dal punto di vista artistico.
Fin qui, nulla di male (e vi abbiamo citato solo alcune tra le polemiche più virali legate alle tematiche omofobia e dintorni): il cantante ha semplicemente espresso la propria opinione personale, pur sapendo - si suppone - non fosse in linea con le istanze social(i) contingenti. Quasi onore al merito, da un certo punto di vista. Non fosse che il nostro oggi, solo a qualche mese di distanza dall’ultima dichiarazione “infelice” (o comunque di mancato sostegno) nei confronti del mondo LGBTQ+, si sia presentato all’Ariston come alfiere delle relazioni omoerotiche. Non solo, nel video ufficiale di Brividi, Mahmood si avvinghia mezzo desnudo con un altro uomo fin dalle prime scene. Solo gli stupidi non cambiano idea, certo. Ma qui il passaggio ci pare un filo veloce per non dire che assume i contorni di un’excusatio non petita (roba che fin del latino si sa che farlo sottintenda implicitamente una coscienza sporca fino a Caltanissetta centro). I motivi che l’hanno spinto a questo esporsi in sostegno della causa omosessuale principiando perfino ciò che aveva sempre ammesso che non avrebbe mai fatto (ovvero, una sorta di coming out)?
Di sicuro, un ripensamento, la voglia di scendere in campo per qualcosa di importante a livello sociale e non solo ombelicale. Se questa componente esiste, non riusciamo proprio a farcene sfuggire un’altra, però: Ghettolimpo, secondo disco dell’artista, ha pur tirato su un disco d’Oro (+ 25mila copie vendute), risultato ragguardevolissimo ma che rappresenta in numeri l'esatta metà di vendite rispetto all’album d’esordio. Ipotizzare che ci si aspettasse qualcosa di più dal progetto, è perfin banale da riportare. E quindi riecco Mahmood, quello che non avrebbe mai rivelato il proprio orientamento sessuale, l’artista contro il coming out in generale, il proprietario della tastiera da cui parte l’endorsement per un’uscita mezza omofoba di Guè Pequeno, colui che non riesce a non far trasparire la sua (retrograda) opinione perfino quando tenta di sostenere il DDL Zan, totalmente rinato: fluido, sexy da morire in totale fanservice per i maschietti a casa, pronto a simil-grattinare il compagno (di palco) all’Ariston per due botte di televoto in più e pure ad avvinghiarsi con un bel maschione nel videoclip della canzone vincitrice del Festival. Chi pensa male fa peccato, ma saggezza popolare vuole che non sbagli. All the things he said.