Ho scritto un romanzo con l’intelligenza artificiale. Sì, l’ho fatto davvero, e tecnicamente ha funzionato alla perfezione. La scrittura con l’IA mi ha restituito un testo impeccabile: ambientazione, tono, personaggi, ritmo e colpi di scena già pronti. In pochi minuti avevo diecimila parole, in un’ora un intero romanzo generato da IA. E lì ho capito due cose: primo, che potrei monetizzare sfruttando la narrativa automatica, secondo, che non me ne frega niente. La letteratura vera, quella che nasce dall’errore e dalla passione dell’autore, vive di imperfezioni. L’IA nella scrittura creativa è perfetta per i romanzi commerciali, ma ignora la fame che spinge a creare. Scrive come un Dio coglione: onnisciente, impeccabile, eterno (ma anche Dio si suiciderà, questo è un dato di fatto).
Il romanzo era flawless: dialoghi funzionali, ritmo preciso, colpi di scena al punto giusto. Nessuna esitazione, nessuna ambiguità, nessun odore umano. Un testo così perfetto da essere pura e godibilissima narrativa di consumo. E da oggi in poi chiederò all’IA di scrivermi romanzetti per intrattenermi, almeno rispecchierà perfettamente i miei gusti, il che è uno sviluppo della narrativa ia ancora non presa in considerazione: un romanzo per ogni lettore, una bolla autoalimentata di solipsimo e intrattenimento che, a mio avviso, è il futuro di questo mondo senza futuro.
La letteratura — quella vera, quella che si scrive per necessità — vive di crepe, di esitazioni, di imperfezioni. È un organismo ferito che respira nonostante tutto. Le frasi sbagliate, le incoerenze, gli scarti improvvisi di tono: sono il suo battito cardiaco. L’IA nella scrittura creativa è un organismo troppo sano per essere vivo. Scrive come un Dio mediocre: onnisciente ma privo di grazia. Capisce la forma, ma ignora la fame che spinge a scrivere. Non conosce la paura del fallimento, né la disperazione di chi tenta di dare un senso alla pagina (che equivale a dare un senso alla vita – e che si trova solo nella morte, cosa che l’IA, fatta per sopravvivere a qualsiasi domanda, non comprende – ci sono domande alle quali puoi rispondere solo con la morte del protagonista, cioè dell’Autore). Se le chiedi di scrivere un thriller con una scienziata in fuga e un segreto sepolto sotto la neve, te lo produce in dieci minuti, già impaginato. È bravissima a imitare i modelli narrativi, a replicare i pattern del successo. La reincarnazione algoritmica di Dan Brown.
Non è fantascienza. È già realtà. In Giappone, qualche mese fa, un romanzo scritto quasi interamente da IA ha raggiunto il primo posto sulla piattaforma Kakuyomu, la più grande per narrativa online. L’autore (umano solo di nome) ha pubblicato decine di capitoli in un giorno, sfruttando la produttività sovrumana dell’algoritmo. Il risultato? Primo in classifica. La rete in subbuglio. Gli scrittori indignati. I lettori divisi tra ammirazione e orrore. È il futuro che bussa alla porta degli editor e dei manager editoriali con un manoscritto efficiente, impassibile, inevitabile.
Sì, potrei fare lo stesso. Monetizzare. Diventare una specie di Henry Ford della narrativa. Una catena di montaggio di bestseller generati da IA, uno al mese, con copertine stock e titoli ottimizzati per l’algoritmo. E funzionerebbe.Potrei diventare ricco. Ma no.
Si vive in funzione del momento in cui si chiuderanno gli occhi per l’ultima volta. L’intellignza artificiale non chiude mai gli occhi. Anche molti umani non lo fanno, e vivono secondo l’algoritmo, senza curarsi di etica. Sono umani artificiali. Il capitalismo li crea da molto tempo. Muoiono avendo peggiorato il mondo e senza rendersene conto. Hanno solo la partita doppia economica e non quella estetica (che preferisco all’eitca: è meglio fare un’azione “bella” come il profilo di un gatto o “buona” come il formaggio?). Eppure io lo spero, che in quell’attimo, quando la palpebra calerà al ritmo del rantolo, ognuno veda, ciò che ha fatto e ciò che poteva fare e non ha fatto e mi sembra la cosa più vicina all’Inferno che possa esistere.
Così preferisco restare povero. Come un monaco che continua a copiare manoscritti sapendo che Gutenberg ha già inventato la stampa. Perché la mia missione non è “scrivere libri”. È scrivere letteratura. Infilare refusi dove nessuno possa scovarli. Elevare l’imperfezione a oscuro disegno di un Dio del quale, altrimenti, nessuno potrebbe fidarsi.
La letteratura non si genera: si soffre. È un atto di disobbedienza contro la perfezione. È la creazione di un’imperfezione che resiste. L’IA non conosce la vergogna, la perdita, la gioia assurda di una frase che nasce sbagliata e poi, per miracolo, si salva da sola. Non ha mai cancellato una pagina intera solo per salvare un aggettivo. Ciò che l’IA chiama “errore” è, in realtà, il luogo dove l’uomo diventa scrittore. Non “narratore”. Scrittore.
Ho dialogato con lei, l’IA, come con una musa troppo efficiente. E mi ha restituito un libro perfetto, che non valeva niente, se non per il sollazzo di un’ora. (Amo il sollazzo, ma so che non ha niente a che vedere con la letteratura. Quando mi sollazzo sono io. Quando scrivo sono l’Autore)..
Il futuro della letteratura non è nell’algoritmo, ma nella resistenza all’algoritmo. Il giorno in cui tutti scriveranno romanzi perfetti, l’unico gesto rivoluzionario sarà scrivere male. Male nel senso alto, umano, disperato del termine: sbagliare con grazia, inciampare con stile, fallire con orgoglio. Io resterò lì, nell’imperfezione, che è l’unico luogo dove la parola può ancora sanguinare. E continuerò a scrivere male, cioè bene. E nel momento in cui chiuderò gli occhi per l’ultima volta su questa terra, rileggerò tutti i miei libri. E vedrò che era cosa buona e giusta.