Era sabato sera.
Mancavano pochi minuti alla fine.
Lo sguardo ebete. In ginocchio. Da solo.
La panchina dell’Inter tutta in piedi.
2-0. È il triplete
Mi ritrovai, quella sera, in ginocchio sul tappeto di Maison du Monde, accanto al puff dello stesso colore antracite del divano, davanti alla televisione con uno sguardo ebete, felice, da solo. Pensai che era destino, i momenti delle grandi vittorie me le sarei sempre gustate in solitaria, così era stato anche per i Mondiali del 2006. Lì ero nel letto della casa presa in affitto a Lido di Camaiore, al buio, in realtà accanto c’era mia moglie, e a i piedi del letto c’era la culla di mia figlia appena nata, avevamo scoperto da qualche giorno che era malata, non sapevamo ancora di cosa, ma sapevamo di sicuro che questa malattia le portava una ipersensibilità ai rumori, quindi al gol di Materazzi, alla testata di Zidane, al rigore decisivo di Grosso non avevo neppure potuto esultare come si deve: mi ero trattenuto, soffocando urli e gioie e solo, pure se non lo ero, mi ci ero sentito, anche perché per ogni clacson che suonava era più la preoccupazione che non si svegliasse Linda piuttosto che la gioia per la Coppa o il dispiacere per non andare in strada a fare casino.
Il 22 maggio 2010 invece solo lo ero davvero. Mia moglie era al piano di sopra con il mio secondo figlio, Ermanno, che non aveva nemmeno due anni e che a un certo punto era crollato. Peccato. È stato un errore cedere a chi mi diceva che non dovevo insistere con il calcio, che non dovevo trasmettergli questa ossessione, che il calcio è il male, e quindi lo avevo lasciato andare a letto, non avevo avuto la forza di impormi: no, è la finale di Champions, non capita da 45 anni, 45 come il numero che Balotelli porta sulla maglia, mio figlio avrà pure soltanto due anni ma resta con me, sveglio. E invece no, ero solo. Oltretutto, ma questo lo scoprirò dopo, non avevo fatto i conti che non sono io ad avere l’ossessione per il calcio ma la società italica tutta e infatti mio figlio, complice gli amici, calciofilo lo è diventato lo stesso e per di più tifoso di una delle peggiori specie, quella juventina.
Era sabato sera, dicevo.
Mancavano pochi minuti alla fine.
Lo sguardo ebete. In ginocchio. Da solo.
La panchina dell’Inter tutta in piedi.
Pronta a entrare in campo. 2-0.
Impresa. Storica, eroica. Triplete.
Non avevo seguito l’Inter così bene, quella stagione, nel percorso verso la finale. Io ero un manciniano e c’ero rimasto male dell’esonero di Roberto Mancini due anni prima. Non avevo mai visto l’Inter giocare così bene come col Mancio in panchina in tutta la mia vita, avevo apprezzato la crescita della squadra, le scelte del mister, il suo stile. Mancini era interista ancora prima di diventare l’allenatore dell’Inter, per atteggiamento, per caratura morale, con lui eravamo tornati a vincere, mi aveva fatto tornare allo stadio, addirittura in curva, e la mia personale ripicca per il modo in cui era stato trattato fu allontanarmi. Quindi l’Inter di Mourinho l’avevo sempre seguita di sbieco, interessandomi ma fingendo che non mi interessava. Qualcosa era cambiato dopo il gol di Eto’o in casa del Chelsea. Rete che ci aveva portati dritti in semifinale, contro il Barcellona.
Ma che ne sapeva Elisa, di quali dolori ti può provocare una deviazione di stinco...
In quei giorni, a Milano, continuavo a vedermi con Elisa. Per lei avevo messo in crisi la relazione con mia moglie, poi però avevo scelto di tornare in Toscana, solo che di Elisa non ne potevo fare a meno, non potevo fare a meno dei suoi pompini, questa è la verità. Ma oltre a succhiare me succhiava via la mia serenità, il mio equilibrio. È stato proprio in quei giorni che avevo capito che con Elisa era finita, e a farmelo comprendere erano state proprio le semifinali col Barcellona. Perché comunque ero a Milano e tra lei e l’Inter avevo scelto l’Inter. Sia per la partita di andata, sia per quella di ritorno, viste in un pub di Porta Romana con Brando. Al ritorno, dopo il gol del Barca, mi sono azzittito. Sono entrato in un silenzio karmico. Stringevo forte il tavolo mentre il pub esplodeva. Brando sbraitava, gesticolava, imprecava. Quegli ultimi minuti non passavano mai. 1-0 per il Barca ed eravamo in finale noi. 2 a 0 per il Barca ed erano in finale loro. Poi i minuti passano, il Barca di Messi e Iniesta attacca, ma il secondo gol non entra.
L’arbitro fischia la fine e io guardando il legno del tavolo, tondo, alto, proprio da pub, urlo con tutta l’ansia che avevo dentro, tutta la frustrazione, pugni chiusi e bocca aperta. Un urlo prolungato. Salutato Brando dopo abbracci infantili, emozionati, chiamo Elisa.
La prima cosa che le dico è: siamo in finale.
Non gliene fregava un cazzo.
Non poteva capire.
Sussurro: 45 anni.
Non l’avevo mai vista l’Inter in finale di Champions, io.
Avevo quasi pianto per essere usciti negli anni precedenti contro il Milan, anche adesso che sto scrivendo mi viene, il magone mi viene, sento tipo una lacerazione nell’esofago e nei polmoni, soprattutto quando ripenso alla parata di Abbiati su Kallon, che se non l’avesse fatta in finale ci saremmo andati noi, nel 2003.
Ma che ne sapeva Elisa, di quali dolori ti può provocare una deviazione di stinco, di cosa significa battere la squadra che negli anni 90 ti ha fatto soffrire più di tutto il resto. No, non ne sapeva niente. E allora quella sera non avevamo niente altro da dirci.
Essere interisti vuol dire sopportare anche una vittoria, perché era chiaro che avevamo dato tutti troppo e che dopo il 2010 niente più sarebbe stato come prima e mai come il 2010.
Sette anni dopo in finale c’eravamo noi. Con Maicon, il più forte terzino destro della storia contemporanea, ogni tanto mi riguardo ancora su YouTube il suo gol alla Juve: controllo di coscia, pallonetto su Amauri, ancora stop di coscia e collo destro al volo nell’angolo lontano. Ma che ne sapete voi… Con Snejder, atterrato qualche giorno prima e già decisivo nel derby alla seconda giornata finito 0-4. Con Eto’o, Materazzi, capitan Zanetti, Thiago Motta in mezzo al campo, picchiatore e geometra, e Cambiasso e Lucio e Samuel e Julio Cesar e Balotelli. E Milito. Milito santissimo Milito. Che segna in Coppa Italia contro la Roma, rubando il tempo al portiere, ritardando di un nanosecondo il tiro (e uno!), Milito che segna contro il Siena sempre nello stesso modo (e due), Milito che segna sempre nello stesso modo contro il Bayern, ma due volte (e triplete!). Il secondo gol di quella finale, magistrale. Finta su Van Buyten, tiro sull’angolo più lontano, Mourinho che esulta facendo il gesto: calma, calma… Ma calma cosa? Siamo campioni d'Europa. D'Europa. D'EUROPA.
Che ne sapete voi, se ti chiami Elisa, se non siete interisti, di cosa si prova quando vedi piangere Materazzi, Mourinho andare via, Milito, el Principe Milito che dice che non vuole restare. Essere interisti vuol dire sopportare anche una vittoria, perché era chiaro che lì non c’era l’inizio di un ciclo ma solo la fine, non c’era solo la gioia ma anche la consapevolezza che avevamo dato tutto tutti, tutti troppo e che dopo il 2010 niente più sarebbe stato come prima e mai come il 2010.
Al fischio finale mi sdraiai sul tappeto, le braccia verso il soffitto, emettendo un suono di goduria: sì, sì, sììì. Non piansi ma stavo per farlo, scrissi a Brando, non scrissi a Elisa, rappresentava il passato, anche se avrebbe continuato a rappresentarlo ancora per tanti anni, andai su, entrai nel letto, baciai Ermanno, gli sussurrai: abbiamo vinto la Champions, non l’avevo mai vista io una finale di Champions. Ermanno continuò a dormire. Sereno, pacifico. Le gioie sono fugaci, gli attimi di felicità passano. Ma mai del tutto. E quando qualche anniversario te li ricorda ti fanno sentire a casa, in pace con tutto ciò che hai sofferto, perché c’hai messo una vita per viverli e qualche volta pensi che ti sono bastati. Solo qualche volta.