Anna Prouse si scrive correndo, veloce come chi corre perché se non corre muore.
Fino a ieri non lo sapevo pronunciare il suo nome, non sapevo neanche chi fosse, Anna. Stanotte l’ho googlata per vedere il suo viso, per dare forma a una voce. L’ho cercata sui social, alle 2 di notte con gli occhi impastati, ma non l’ho trovata.
Un po’ sono contenta di non averla scovata lì, ad attendere di essere visualizzata nella calma di una storia Instagram.
E poi ho già la sua voce, a raccontarmi di lei, serve altro? Qualche volta è solo un sibilo deciso, altre volte è così arrabbiata che ho paura si possa mettere ad urlare, altre ancora sembra solo stanca, triste. Ride poco, ma ogni tanto lo fa, e piange senza vergognarsene.
Inizio ad ascoltare la sua storia mentre lavo i piatti: Pablo Trincia ha appena pubblicato un nuovo podcast, lo faccio partire. Non leggo neanche la trama, tanto Trincia è una forza della natura nel raccontare storie, e dopo Veleno potrebbe anche leggere la lista della spesa e io lo ascolterei comunque, con devozione.
Si parla di questa Anna. Ha mal di testa, non vede bene, vive in California, ha un tumore al cervello, giocava a tennis ma ha dovuto smettere per un infortunio, adora suo padre, molto meno la madre. È sbiadita, i contorni del suo carattere ancora non tornano, la ascolto con la diffidenza di chi cerca di scoprire un personaggio in un nuovo romanzo.
Mi piace però, è una che non molla. Racconta di aver perso una partita di tennis, da ragazzina - dopo un mach point a suo favore - per colpa di un rovescio sbagliato. E che fa? Costringe il padre a tirarle palle da tennis, di rovescio, per due ore, lì dove è stata sconfitta.
Dedizione, la chiama Anna.
Una propensione stancante, la rovina e la fortuna di questa donna, tutto insieme. Da lì il turbinio di lavori, il giornalismo, l’amore per i paesi mediorientali, l’11 settembre spartiacque di una vita che se ne sta comodamente a cavalcioni tra due mondi.
Occidente e Oriente. Iraq, per otto lunghissimi anni. Una delle poche persone al mondo ad aver vissuto la distruzione del paese così a lungo. La guerra, quella vera, come volontaria della Croce Rossa prima e poi come volto (e mente) fondamentale per le dinamiche di un paese allo sbando. La sua storia si intreccia con quella di chi l’Iraq l'ha vissuto da iracheno - con le atrocità di Saddam e con la confusione dell’invasione americano - il tutto guidato da un Pablo Trincia poliglotta gentile nel dolore, puntiglioso giornalista nella narrazione.
Ma di Anna mi innamoro davvero, definitivamente, quando racconta della prima volta in cui rischiò la vita. Rannicchiata contro un muro, sopravvissuta agli spari di un’imboscata e convinta di essere attorniata dai cecchini, Anna si alza e inizia a correre:
Così io non muoio
Se muoio, muoio correndo
E poi una fatwa che incombe sulla sua testa, come la peggiore delle condanne a morte. La fatica a guardarsi allo specchio, a pesarsi, a fare i conti con la Anna bambina. Un tumore al cervello grande come una palla da golf, in California, dove il dolore dell’Iraq non dovrebbe raggiungere nessuno.
Tutto, ma proprio tutto, affrontato nello stesso modo.
Come il rovescio di una bambina che perde una partita di tennis.
E nella dedizione, scopre se stessa.
Se siete arrivati fino a qui seguiteci anche su Facebook e su Instagram