Lo avevamo lasciato a Villa Massimo a Roma, seduto in prima fila alla cerimonia dei Globi D'Oro accanto alla moglie Trudie Styler. C'eravamo imbucati vestiti di sacco e non abbiamo creduto ai nostri occhi guardando la folta platea: “C'è Sting? Ma come?”, “Ma te sarai sbagliata, di solito non ci vedi”. E invece era proprio Sting a sorbettarsi i pipponi di Elio Germano e la manfrina per ogni film italiano premiato sotto i pini di Villa Massimo insediata dai germanici. Il sacrificio del cantante di Russians valse il ritiro del premio alla consorte per An ode to Naples e si beccarono pure il buffet in mezzo a quella bolgia in fila con il piatto in mano. “A Sting gli abbiamo dato da magnà?”, si chiedevano i camerieri, e noi vivemmo di rendita di questa battuta per un intero anno. Oggi ci rimettiamo nuovamente sulle tracce di Sting raggiungendo le dolci colline del Chianti tra cui sorge la villa da sogno che ha acquistato, come ogni divo che si rispetti, che prima o poi compra il famoso "casale in Toscana". Non pago del nido d'amore da qualche milione di euro, ha aperto pure due ristoranti nella tenuta del Palagio, un esteso appezzamento di terra dove produrre l'olio Sting, il miele, e, due su tutti, il vino Message in a bottle e il Roxanne. Il business va alla grande ma pare che l'idea sia della signora che voleva i ristoranti e il marito glieli ha regalati. Una cosetta, insomma. Il senso degli affari di Trudie Styler, sua moglie dal 1992, ha prodotto questa macinoteca mangereccia popolare connotata dall’inimitabile gusto toscano, declinata nel Farm Shop Pizzeria di Sting e Trudie e nella Taverna dei Lupi. Se il tutto fosse nato a Roma probabilmente avrebbe chiuso i battenti qualche semestre dopo, vittima della burocrazia o di qualche losco impiccio. Si sarebbero servite carbonare assassine o pretenziosi salumi sulle solite odiose tavolette di ardesia e pane in infami buste di carta finto radical chic.

Ma essendo in Etruria, anche Sting sciacqua i panni in Arno e lascia fare a chi lavora per lui. E a lavorare per lui qui al Palagio è davvero tanta gente. I due ristoranti sono vicini, si intravedono entrambi percorrendo la strada tra i cipressi pizzuti che corrono per la vastità. Il colpo d'occhio che connota tristemente l’arrivo è l’immenso parcheggio; più che colpo d’occhio, un vero e proprio cazzotto in faccia a rimembranze di angoscianti banchetti matrimoniali in grosse mangiatoie dispensatrici di vassoi di rollè con i piselli e di orate in famigerata crosta di patate a morire male insieme agli ospiti in lamé e sandali délabré. Il piazzale denso di autovetture è più coattamente romanesco che stilosamente toscano, aldilà del quale affondiamo le suole sul brecciolino, fino ad incespicare in qualche botte di vino sotto file di lucine per aria a dare quel non so che di osteria e sagra di paese.


Altalene e marmocchi punteggiano l’area e fortunatamente una pergola di glicine e non di uva pizzutello come a Roma nel 1950 - lasciate stare, aveva il suo perché - ci convince a rilassarci. Alla prima coppa di sangria con il denso rosso Roxanne già ci appare Sting seduto su una balla di fieno intento a zufolare ‘Lo porti un bacione Firenze’. La pasta al forno della Tenuta, con besciamella, ragù di carne e una vangata di pecorino riserva Mesina ci snebbia i circuiti, ottima e nutritiva, pronti per una caprese leggera con pomodori dell’orto e pesto all’olio di Sting. Delicatissima, segnaliamo l’assoluta freschezza della mozzarella alla goccia e degli ingredienti dop. Della Mediterranea, pizza dal cornicione alto gloriosamente ben alveolato e non elastico, restituiamo ahimé l’odiosa esperienza di un pomodoro dal gusto acido, con sentore di crudo che rovina l’ottima presenza di pomodorini rossi e gialli, origano, olive e acciughe.

Chiudiamo quando la notte è ormai una trapunta sblusata di stelle con un tiramisù del Chianti con i cantucci e il vinsanto. Leggero come una nuvola, reso croccante dal biscotto toscano, ma facciamo un appunto veemente sulla filettatura del contenitore di vetro del dolce nazionale: orribile. Non si fa. Buttate questi barattoli s’il vous plait, o conservateci i sottaceti. Dice che Sting ogni tanto arriva, si mette da una parte e beve, più o meno come noi stasera, oppure giunge con gli amici, non ordina dal menù, mangia tutto ciò che gli viene servito e non ha un piatto prediletto. Trudie? Simpaticissima. Il prezzo per questa cena? Sessanta euro, compresi di un’acqua minerale in bottiglia di vetro dignitosa e non una di quelle caraffe di microfiltrata come quelle pulciare romane antigieniche e fintamente ecosostenibili. Il voto? 7 per il glicine, la lasagna e l’aria fresca. Ci torneremmo? Scusa Gordon Matthew Thomas Sumner, “pungiglione” nostro, c’è di meglio. E ora andiamo via; come dicono gli abruzzesi, Sting, stong stang!
