Antonio Ricci, l’ultimo dei Grandi Antichi della televisione italiana, spegne oggi 70 candeline. Ho sempre pensato che, con le creature mostruose come Chtulhu o Yog Sothoth partorite dalla fantasia di H.P. Lovecraft, Ricci avesse molto in comune: l’elusività, così estrema per un personaggio di siffatta caratura da far dubitare la gente della sua reale esistenza, come il Kaiser Sose de I Soliti Sospetti; lo sconfinato potere (nella sua straordinaria carriera si dice abbia accumulato fortune inestimabili, superiori addirittura a quelle degli eredi di Berlusconi); l’essenza dispettosa e leggermente malvagia (di questa non ho prova e non credo sia “cattivo” ma infantilmente e proletariamente è una caratteristica che associo a chi si trova in genere in una posizione di assoluto comando); la libertà di fare ciò che vuole (non c’è nessuno al di sopra di lui e sebbene sia stato per anni contrattualizzato da Mediaset ha mantenuto sempre, caso rarissimo, totale autonomia).
La mia attività principale che assomiglia di più a un lavoro è quella dell’autore televisivo, che svolgo da 20 anni, buona parte dei quali trascorsa nei corridoi di Mediaset: in questo tempo mi è capitato di vedere, seduti al ristorante interno al complesso di RTI, nei corridoi, in eleganti sale riunioni, più o meno tutti i volti noti del Biscione e anche Piersilvio (una persona di rara educazione). Mai Ricci.
Eppure, come una divinità lascia segni tangibili della sua presenza ai suoi fedeli e timorati, tanti sono i segni della sua presenza fra i palazzi di Mediaset e Publitalia (la concessionaria della pubblicità del gruppo): piccoli panettoni di cemento e quadri a olio che raffigurano la creatura forse più rappresentativa del “ragazzo dei carruggi”, il Gabibbo (io l’ho sempre odiato ma il segno che ha lasciato nella cultura pop degli ultimi 30 anni è innegabile). Lui però si mostra sempre con parsimonia.
L’unica volta che testimoniai una sua rara manifestazione fisica fu una quindicina d’anni fa, fuori dal Teatro Manzoni: una mia cara amica faceva la maschera e spesso mi faceva avere dei biglietti scontati. Si era appena concluso uno spettacolo, non ricordo quale, ma lo vidi benissimo: la sua figura si stagliava in un mare di vecchie sciure impellicciate, signore rifatte color teflon con orecchini/lampadario e abiti da sera tipo neon, vecchi decrepiti strizzati in doppiopetto gessato e borsalino. Era vestito in modo sobrio, come un saggista giapponese, aveva il classico pezzetto luciferino e parlava con un accompagnatore in tono pacato. Non se lo cagava nessuno. Aveva gli occhi serrati alla Clint Eastwood e un’espressione intelligente. Pensai che era un bell’uomo e che assomigliava in modo incredibile a mio zio Sandro (che non so quando compie gli anni).
Ma se lavorativamente la mia strada non ha mai incrociato la sua, da spettatore posso dire di essere nato con i suoi programmi, anche se ho scoperto che erano suoi solo molto più tardi. Ho un ricordo nitidissimo di me, sdraiato sulla pancia nel salotto dei miei nonni a Genova, che assieme a loro e ai miei genitori guardo religiosamente Te La Do Io L’America, il docu road su un paese allora in larga parte sconosciuto nelle sue abitudini quotidiane raccontato da un giovane Beppe Grillo, comico caustico e spiritato. È il 1980 e io ho 5 anni. Quella con Grillo, anche lui ligure, è un’amicizia che Antonio Ricci stringe in giovanissima età. “Grillo l’ho conosciuto su un campo di calcio: io giocavo terzino, lui mezz’ala. Lo rividi al Jolly Danze, una baleraccia enorme che occupava i sotterranei del Politeama Genovese e dello Stabile. Era un giovedì. Quella serata la dedicai a Jacques Brel. Alla fine, nella penombra, vidi profilarsi tra i fumi un ragazzo magro, con barba e capelli lunghi, che fu prodigo di complimenti. Era anche solito frequentare gli spettacoli degli altri comici e appuntarsi le migliori battute su un’agenda, detta il librone, per riciclarle nei suoi spettacoli. Una sera, durante la mia esibizione, vidi precipitarsi Beppe, di fronte al palco, agitato: ‘Ricci, ti devo parlare! Antonio, dai...’. Riuscii a mandarlo via, ma nel timore che ritornasse accorciai lo spettacolo. ‘Mi vuole Pippo Baudo!’ disse. ‘Bene’. ‘Bene un corno. Sono rovinato... Adesso mi scopriranno... Un conto è girare per la provincia, un altro è andare in tv, dove Brel è Brel. Tu mi devi aiutare, mi devi scrivere i pezzi’. Aveva deciso: da simpatico falsario sarebbe diventato un vero inimitabile comico”.
A quel punto, dopo aver accantonato il sogno di diventare calciatore professionista ed essersi laureato in Lettere, diventa il preside più giovane d’Italia, all’istituto agrario Coronata di Genova. “Era una scuola privata e dormivo in auto perché tornavo alle 4 dai miei spettacoli comici al Derby di Milano”. Young Riccino compie allora un gesto da molti ritenuto forte ma che si rivelerà fondamentale per tutta la televisione italiana: lascia l’impiego sicuro a scuola e va con Grillo a Roma. Qui inanella una serie di successi incredibili: Fantastico, il già citato Te la Do io l’America, Te lo Do io il Brasile e Drive In. Anche di quest’ultimo, forse il programma tv simbolo dell’edonismo catodico anni 80 ho ricordi nettissimi. Sono nella mia cameretta, incollato al mio vecchio 14 pollici Sony Black Trinitron che ha l’angolo in alto ormai permanentemente verde dopo che ci ho avvicinato per sbaglio la cassa del mio stereo: rido quando vedo Gianfranco d’Angelo che fa il Tenerone, l’animale più buono del mondo, Faletti con Vito Catozzo, Francesco Salvi che fa il metallaro, Sergio Vastano che si vergogna delle proprie origini meridionali e se la tira facendo il bocconiano… Resto conturbato dalle forme di Carmen Russo, Tini Cansino e dalle “Ragazze Fast Food”, un plotone di fighe che marcia a inizio blocco ed esce di scena così, senza fare nulla. Il programma, nonostante le critiche feroci, riscuote un successo incredibile. Per me è un appuntamento fisso.
Ho scoperto, mentre mi documentavo per scrivere queste righe, che Ricci avrebbe dovuto girare con Grillo (col quale è ancora amico e si sente spesso) anche Te lo do io il Giappone, che avrei amato follemente essendo uno dei paesi che amo di più. «A Beppe venne in mente di fare il test dell’Ultimo Samurai. Completamente nudo, si era coperto con una specie di mutandozzo, creato con un asciugamano e la cintura dell’accappatoio. La mia camera era di fianco all’ascensore; quando arrivava, verificavo che i clienti fossero manager americani, poi telefonavo a Grillo per avvertirlo. Beppe si fiondava in corridoio e, caricando gli americani a testa bassa, gridava: ‘Yankee! Samurai! Kamikaze!’. Vedendosi arrivare addosso quella furia, gli americani facevano dietrofront e scappavano dentro l’ascensore. Purtroppo, poi, Beppe si ammalò: il suo corpo nudo e sudaticcio non aveva retto alle glaciali temperature dell’aria condizionata giapponese. Ritenemmo tutto questo un segno di Dio e decidemmo di non fare più Te lo do io il Giappone». La mitologia sul personaggio Ricci, data la sua riservatezza assoluta, si ingigantisce con gli anni: girano voci sulla sua assoluta tirchieria (non una novità per i liguri) ma anche su certi suoi rituali scaramantici. Un mio amico dipendente Mediaset da 40 anni mi disse che Ricci attribuì i mostruosi dati d’ascolto della prima puntata di Paperissima, del 1992, a Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, che erano ospiti. Da allora furono invitati praticamente sempre. Un altro mi ha detto che non mangia mai il pesce al forno perché lo disturba che il pesce “lo guardi” dal vassoio.
Da oltre 30 anni il nome di Ricci è indissolubilmente legato a Striscia la Notizia, lo show più longevo della storia televisiva italiana (non si è mai fermato nemmeno durante il lockdown da Covid-19). Che i suoi programmi piacciano o no è innegabile che Ricci sia un genio, che mischia indifferentemente sacro e profano, che “Non ha rispetto per niente, neanche per la mente”, per citare un altro filosofo contemporaneo. Come definire altrimenti uno che ha inventato una rubrica in cui l’inviato (Brumotti) come punchline ha il fatto di farsi pestare di botte? In una nota recente intervista a Cazzullo per il Corriere Ricci, da uomo libero che odia il politically correct quale è sempre stato, spara a zero su tanti grandi nomi. Mi è piaciuto di più però in una recente diretta Instagram con uno dei maggiori imprenditore italiani, Jovanotti (non capisco perché tutti, lui compreso, continuino a chiamarlo “musicista”). Ricci, sorriso beffardo sempre stampato in fronte, parla della sua Albenga e ricorda a Jova che il ragazzo aveva fatto il militare proprio nella città ligure. “Sì, sì, da Roma sono andato lì”, conferma lui. “Ecco, tu eri molto odiato in quel periodo, per via de ‘La Mia Moto’ ed ‘È Qui La Festa’… ricordo che proprio all’ingresso del paese vidi, appeso a un palazzo, uno striscione di 15 metri con su scritto ‘JOVANOTTI MERDA’ e pensai: ma sto povero cristo già deve venire qui a fare il militare, possibile che lo debbano insultare? Da allora ho sempre preso le tue difese”. Buon compleanno Antonio.