La vicina del piano di sopra non mi ama. È tutta buongiorno e buonasera ma si capisce che dietro le cerimonie della buona educazione non mi sopporta. Ci sono due indizi che mi portano a questa conclusione, due indizi e uno stuolo di prove non documentabili. Le espressioni. Ci incontriamo sul lato lungo del terrazzo tutti i giorni in un mezzogiorno di fuoco condominiale, mentre salto la corda o tento svogliato qualche esercizio nel desiderio di essere come tutti quelli che, in questi giorni, sono riusciti a crearsi una routine da far invidia a un candidato in campagna elettorale.
Marisa invece, che la notte non dorme a causa “dei pensieri” e a una cattiva circolazione ereditata dalla madre sembra avere un’unica grande ossessione: il bucato. Lava come un orsetto lavatore al quale per altro assomiglia per via delle profonde occhiaie e stende con la grazia e l’efficacia di Sugar Rey Robinson. Ogni volta che sono salito sul terrazzo l’ho incontrata. Ogni volta. Inizio a pensare che non lavi solo per sé ma si prenda in carico anche il bucato della sua socia del terzo piano, la signora Allucioni il che me la renderebbe un po’ più simpatica. Marisa, dico. In realtà Marisa mi sta simpatica, ma è una di quelle persone che senza dirti niente riesce a farti sentire sbagliato in tutto. Mentre solo l’altro giorno stava stendendo quello che a me sembrava un tappeto Berbero e che lei definiva tra i denti la “mappatella di quello stronzo di Gerardo” che l’indomani scoprirò essere il marito, semina un altro di quegli inconfondibili gesti di stizza. Venendo verso di me con il suo mastello vuoto e quell’andamento indolente e affaticato che mi sembra usi per dissimulare invece una certa curiosità, prima si “impiccia” di cosa io stia brigando e una volta che vede il grande serbatoio da 19 litri della mia R80 GS che sto facendo ritornare bianco latte, le scappa involontario un moto di stupore, quasi un apprezzamento. L’ho stanata! Ho finalmente colto quale codice ci può unire, il candore al quale devo anelare per sentirmi un buon vicino, un uomo appagato, un essere umano degno. E mentre roteo orgoglioso verso di lei il risultato della mia mezz’ora di strofinamento-asciugatura e ancora strofinamento, Marisa approfitta di un flebile riflesso del sole che rimbalza sulla superficie di metallo puro, per portare la mano davanti gli occhi e simulare con un verso scomposto, un fastidio per quella momentanea e simulata cecità. Scende le scale snocciolando qualche santo e mi pare di sentire chiaramente San Nivardo, ma ancora più chiaramente che sta per iniziare, una tempestosa storia d’amore.