Vorrei fare Ragazzo di Campagna 2: un contadino che alleva le vacche sul Bosco verticale e vende il latte ai calciatori che abitano lì
Pratico e stralunato, come i personaggi che ha interpretato dal cabaret al cinema, lo è però davvero. Non finge, o forse ha solo perfezionato alcuni tratti caratteristici del suo carattere, ma la base non è mai cambiata. E così, nonostante il grandissimo successo come comico, non ha creato una maschera (Villaggio - Fantozzi, Antonio De Curtis - Totò, Charles Spencer - Charlie Chaplin), ma è sempre rimasto Renato Pozzetto da Laveno-Mombello nella parte di…
Eppure, quello che per tanti ha rappresentato un limite - basterebbe citare Boldi con il suo “cipollino” - per lui è stato il punto di forza che gli ha permesso con passo leggero e disincantato di entrare di diritto nella storia della “commedia all’italiana”. Negli anni 60 ha rivoluzionato gli spettacoli di varietà insieme a Cochi Ponzoni, uscendo dalla barzelletta e introducendo il nonsense, al fianco di artisti come Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo. Negli anni 70, mentre i cantautori erano impegnati sul versante polito-ideologico, il duo Cochi e Renato facevano impazzire i giovani – e storcere il naso alla critica – dedicando brani irresistibili a una gallina o parodiando i proprio i blasonati “colleghi” con Canzone intelligente. Poi è arrivato il grande schermo, con un esordio fulminante che gli valse il David di Donatello in Per amare Ofelia. Da quel momento (1974) e per i vent’anni successivi, non è passata stagione in cui non avesse uno o più film in uscita, in grado di risultare campione di incassi o un vero e proprio cult.
Nonostante ciò, non ha mai abbandonato le sue origini: "ho fatto il pendolare da Roma" ammette nell’intervista che ci ha concesso, raccontando di non avere amici nel mondo dello spettacolo e preferendo tornare lungo le sponde del Lago Maggiore ogni volta che gli era possibile. È qui che da tempo porta avanti la sua vera passione: la cucina. Dalla Locanda Pozzetto, guarda caso a Laveno-Mombello – con un bravo cuoco, dieci camere e un panorama mozzafiato – ha confessato un solo rimpianto: "la morte di mia moglie, purtroppo a causa di quel brutto vizio che è il fumo".
Renato Pozzetto, con quale spirito arriva a spegnere 80 candeline?
Ma sai, non ho fatto particolari considerazioni. Più o meno è sempre la solita storia. Vivo questo momento serenamente, nonostante il Covid sia stato faticoso un po’ per tutti.
Nessun timore per il passaggio del tempo?
No, anche perché fortunatamente ho sempre avuto molto da fare e una vita priva di grandi problemi, tranne l’aver perso mia moglie, ma purtroppo sono cose che capitano. Se saranno qui (alla Locanda Pozzetto, ndr) festeggerò con i miei figli e i miei nipoti, però credo che siano via con i bambini. Loro vanno e vengono da Milano e per ora non abbiamo programmato nulla.
Al Corriere della sera ha dichiarato: "Vorrei sognare mia moglie". È l’unico rimpianto?
Sì, per il resto sono stato fortunatissimo! Ho sposato una donna che ha sopportato la mia carriera, che mi ha dato due figli fantastici, ho una bella famiglia. L’unico rimpianto è per la scomparsa di mia moglie a causa di quel maledetto vizio che è il fumo.
Da dove nasce la sua comicità?
Sia io che Cochi siamo partiti molto modestamente, prima suonando per noi stessi con gli amici frequentando le osterie. Ce n’era una in particolare, L’Oca d’Oro a Milano, animata da tanti artisti, in particolare pittori. Andare lì costava poco, c’era posto per suonare e il gestore, che era un ex boxeur, era molto disponibile e amava le canzoni popolari. Ogni tanto si metteva a cantare con noi insieme agli avventori. Insomma, eravamo più che sopportati. Un bel giorno lì vicino, hanno aperto una galleria d’arte notturna, un fenomeno singolare, e abbiamo iniziato a bazzicare quel posto sempre insieme a tanti artisti, come Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Dario Fo.
È stato quello l’incontro decisivo?
Eh sì, loro erano già i nostri miti. Ci siamo conosciuti e frequentati. Poi i gestori della galleria d’arte hanno aperto anche un cabaret che si chiamava Cab 64, e sono arrivati tanti altro, come Nino Toffolo, Felice Andreasi, Bruno Lauzi. In qualche modo si è formato un gruppo di amici-artisti che si davano una mano l’un l’altro. Gaber prestò a darci lezioni di chitarra, perché eravamo disperati. Cochi ha imparato, io no. La vera svolta, però, è stata quando Jannacci ha ricevuto l’offerta del Derby Club per formare un gruppo che lavorasse da loro. Ci siamo finiti dentro anche io e Cochi. La botta è stata quella. Ci siamo chiamati “Il gruppo motore”, per l’energia che doveva sprigionare essendo responsabile della parte artistica del cabaret.
E poi per lei è arrivato il grande salto nel cinema.
Certo, ma adagio adagio. Niente è stato improvvisato. Prima la radio, poi la televisione e poi il cinema. Quelle che ci hanno fatto conoscere al grande pubblico, soprattutto di giovani, sono state le canzoni. La vita l’è bela è rimasta in classifica per un mese, e siamo diventati gli idoli dei teen-ager.
Avete inventato un genere, il surreale.
È stato un caso, avvenuto grazie ai frequentatori del bar Gattullo, in Porta Lodovica. C’era un gruppo di avventori che si divertiva in modo strano. Lì è nato “l’ufficio facce”. Avevano un modo singolare di divertirsi e noi, che forse l’avevamo già dentro, abbiamo coltivato quell’esperienza portandola nel cabaret e via via fino al cinema.
Comici si nasce o si diventa?
Secondo me ce lo devi avere dentro. Noi abbiamo scoperto di divertirci in un modo che era raro, per quei tempi. È nato adagio adagio. Ma già durante le vacanze da scuola, io e Cochi ci trovavamo a Gemonio e siccome c’era poco da fare ci divertivamo a raccontarci storie e cantare canzoni che strappassero un sorriso. Poi abbiamo incontrato Fo, Jannacci e Gaber che erano già ferrati e da loro, lavorando insieme, abbiamo imparato a come gestire ogni situazione. Non credo che si possa diventare comici studiando. Lo capisci se hai la fortuna di incontrare sentimenti che ti spingono a essere incuriosito dall’umorismo e dalla satira. È un punto di vista singolare verso il mondo.
Ma è vero che i comici nella vita privata sono malinconici?
Può essere, ma non è il mio caso. Io e Cochi ci siamo sempre divertiti prima nella vita e poi sul palco. Era già esilarante provare al pomeriggio un’idea, che poi avrebbe trovato sfogo la sera al cospetto del pubblico. Non era faticoso, raccontavamo quello che divertiva a noi, prima di tutto.
Un suo erede non lo vede in giro?
No, ma perché siamo tutti figli del momento che viviamo. È difficile dire chi è meglio o peggio. Quando ci siamo proposti noi c’era tanta gente che non ci sopportava. Quante critiche dai giornali. Sono stati i giovani a venirci incontro. Loro si divertivano e noi ci divertivamo a farli divertire.
A parte Cochi, ha sempre dichiarato di non avere amici nel mondo del cinema. Come mai?
Non era per partito preso. Quando mi hanno offerto di fare il cinema ero titubante, perché ci presentavano tutti copioni per coppie di carabinieri, di preti ecc ecc. Però mi sono convinto quando Flavio Mogherini, che era stato scenografo di Federico Fellini, mi ha fatto leggere una storia che riguardava il protagonista di Per amare Ofelia. Mi è piaciuta perché mi sembrava educata, non volgare ed ero sicuro di poterlo interpretare dignitosamente. Stavo facendo anche Canzonissima, però Cochi mi ha detto di non preoccuparmi e andare, anche perché “è una cagata”. Il film però è piaciuto e ha incassato benissimo, in più mi sono guadagnato il David di Donatello, quindi sono tornato a casa “medagliato”.
Qualche critico negli anni le ha ammesso di essersi ricreduto?
Non saprei, perché non ero molto attento alla critica. Come nel cabaret, ero più interessato che ci fosse gente a vederci, che veniva da lontano, che si prenotava mesi prima. In tutte le cose c’è sempre chi si diverte e chi no. Il pubblico è il critico più importante.
Si sente nella storia del cinema italiano?
Ne ho fatto talmente tanto che è stato parte della mia vita, ma non sta a me giudicarlo. Mi ero attrezzato per far venire la mia famiglia a Roma in una bella casa, ma mia moglie non è voluta venire e così facevo il pendolare. Quando tornavo stavamo insieme lo stesso, anzi, è stato il modo migliore per avere voglia di tornare a casa.
Qualche tempo fa si era parlato di un suo nuovo film, una specie di sequel de Il ragazzo di campagna, dove il protagonista allevava una mucca all’ultimo piano del Bosco verticale.
È una idea nata mentre parlavo con Fabio Fazio prima della sua trasmissione. Si discuteva di Milano, che viveva un periodo particolarmente florido, ed era stato appena stato premiato il Bosco verticale come il miglior grattacelo del mondo. Allora ho pensato, ma se uno portasse una mucca all’ultimo piano per allevarla, poi il latte potrebbe essere venduto dagli altri abitanti del palazzo, tra imprenditori, calciatori, gente dello spettacolo. Vuoi che non spendano lo stesso prezzo per quel latte dello champagne che bevono di solito? Ho raccontato questa storia in Tv e il giorno dopo mi chiama Stefano Boeri, l’ideatore del Bosco verticale, dicendo che gli è piaciuta l’idea. Ci siamo conosciuti, frequentati e mi ha chiesto di girarlo per davvero. Avevamo fatto dei sopralluoghi, ma poi non abbiano trovato persone disposte a percorrere questa strada. Ci spero ancora, perché l’idea è originale.
Che rapporto ha con i giovani, che ancora oggi dopo tanti anni usano le sue battute?
Ho avuto talmente tante soddisfazioni, lavorando tantissimo, che sono davvero sazio di quell’esperienza. Non che sia finita del tutto, da qualche giorno mi è arrivato un altro copione. Per i giovani spero coltivino i loro interessi, mettano in luce le loro novità. È giusto che un giovane porti avanti la propria curiosità per l’arte, che è una cosa così misteriosa però alla portata di tutti. Verso di loro non bisogna avere pregiudizi. Nei nostri confronti ce ne sono stati, ma non abbiamo mai sfruttato la volgarità, cercando di dare un significato alle cose che proponevamo.
La sua Milano quanto è cambiata dai suoi esordi?
Quando la frequentavamo agli inizi c’era poco, infatti andavamo solo nelle osterie sul Naviglio che erano due o tre al massimo. Però si incontrava gente che condivideva la voglia di fare musica e scherzare. Oggi i locali sono tantissimi e tutte le strade sono piene di gente, ma a me rimane piacevole come città, a parte per il Covid che ha seminato un po’ di ansia. A me Milano piace ancora, nonostante tutto dà modo di incontrarsi, di confrontarsi e vivere nel migliore dei modi.
Ma appena può torna nella sua Laveno-Mombello alla Locanda Pozzetto.
È la mia vera passione, che ho portato avanti da tempi non sospetti. Anche da ragazzi io e Cochi cucinavamo qualcosa di semplice. Quando abbiamo cominciato a guadagnare qualche lira, si risparmiava per andare nei ristoranti “giusti”. Ci piaceva frequentare le trattorie e ancora ricevo telefonate da ristoratori per andarli a trovare. Questa locanda è stata una occasione, perché è andata all’asta tanti anni fa. È in un posto fantastico con una vista sul lago maggiore mozzafiato. Io e mio fratello l’abbiamo acquistata, tenendo il contadino che già ci lavorava, ci siamo impegnati nella ristrutturazione e ora, oltre al ristorante dove lavora un bravo cuoco, possiamo contare su dieci camere per pernottare. Io ogni tanto ci vado, però è una mezza trappola perché mi tocca fare le fotografie.
Non ama i selfie?
No, dai, ormai ho già dato.
Taaaccc è finita l’intervista e tanti auguri.
Eh la Madonna, già fatto? Ti ringrazio, e buona fortuna!