Papà fammi una promessa. Si chiama così l’autobiografia di Joe Biden. L’ho letta convinta di sapere già tutto su di lui, interessata al punto di vista più che alla storia.
Quando l’ho finita ho capito due cose: la prima è che sono un’arrogantella convinta di sapere cose che non so, la seconda è che non c’è niente al mondo che valga più di una promessa. Nemmeno diventare Presidente degli Stati Uniti d’America.
Joe Biden mi ha insegnato questo. E non mi interessa che la sua politica estera sia meno isolazionista rispetto a quella di Trump, non mi importa che gli ispanici della Florida abbiano preferito il candidato Rep a lui, non è questo il punto. Non sono americana, non facevo il tifo per un politico o per un altro. Ma Joe Biden aveva una promessa da mantenere e la forza con cui ha portato avanti il desiderio di farle fede per me, oggi, significa tutto.
Cancellato il senso di colpa nell’avere una preferenza personale che va oltre l’analisi politica ed economica del paese, questo pomeriggio, quando la CNN ha annunciato il raggiungimento di quei terribili 270 grandi elettori, mi sono ricordata della promessa. Del non voler piangere per un politico che “sta biografia l’avrà scritta solo per intenerire le persone” e della valle di lacrime che alla fine ci ho lasciato incastrata dentro.
La vita di Joe Biden raccontata attraverso la sofferenza di un’esistenza normale. Ecco qual è il punto, il potersi riconoscere dentro le pagine fitte di una vita mia, tua, sua. Nel dolore di accettare la morte di una figlia bambina, di una moglie appena trentenne, convivere con la consapevolezza di essere improvvisamente diventato un padre single, e poi ancora la pressione di una carriera politica che deve decollare. Ricostruire tutto da capo, dalla balbuzie che ti perseguita - ti stanca - all’amore che non vuoi ritrovare ma che trova te, e poi perdere tutto ancora. Essere vicepresidente degli Stati Uniti e non avere i soldi per pagare le cure sperimentali per tuo figlio, il tuo primogenito malato.
C’è un passaggio del libro, in cui Biden racconta il momento in Barack Obama gli diede quei soldi necessari, soldi che poi non servirono perché Beau morì a 46 anni, nel pieno del secondo mandato Obama. In quel passaggio c’è tutto, c’è la vergogna e il rispetto, la comprensione, il dolore travolgente di un genitore che sopravvive a un figlio, di nuovo.
Dopo la morte di Beau, sua moglie Jill gli ripeteva sempre: su le spalle, Joe.
“Quando parli di tuo figlio devi sorridere. Su le spalle”.
La promessa che Biden fece a Beau fu quella di tentare di correre per le presidenziali del 2016. Alle fine non ce la fece, la ferita sanguinava troppo. Ma la promessa che i due si fecero, quella sera sul tavolo della cucina di casa Biden a Wilmington, nel Delaware, c’entrava ben poco con le elezioni. Quelle del 2016, quelle del 2020, quelle vinte o quelle perse.
La promessa è una richiesta di rinascita. Sopravvivere prima, vivere poi. E quale lezione conta di più di questa? Nessuna, ecco quale. Magari i suoi quattro anni da Presidente saranno i più inutili della storia americana: inadatto, balbuziente, vecchio, rincoglionito. Sarà così? Sarà il contrario? Lo scopriremo.
Ma guardando la CNN - un minuto dopo l’annuncio - io non ho pensato allo scarto di voti tra gli immigrati cubani e quelli venezuelani. Ho pensato a Beau, ai soldi che Obama offrì all’amico in difficoltà, al numero di cellulare privato dato a degli sconosciuti per strada. E alla promessa.
Tornare a sopravvivere, a vivere, a combattere.
A vent’anni, a quaranta, a ottanta. Quando potresti andartene in pensione e goderti quello che ti rimane. I tuoi nipoti, la tua Chevrolet verde, la tua casa nel Delaware, il tuo successo come vicepresidente.
Ma non puoi. Perché tu hai fatto una promessa.
E l’hai mantenuta.