Il babbo a lavorare nella cabina del trattore e lei, Martina, a scorrazzare sulla moto da cross, condividendo una giornata che era sì di fatica, ma anche di grande gioia. Quasi un quadro perfetto, se non fosse che il destino c’ha messo gli artigli più affilati. Perché Martina ha tamponato proprio il grosso mezzo agricolo del babbo, finendo disarcionata dalla moto e ritrovandosi proprio sotto le ruote del trattore. Inutile ogni tentativo di soccorso: Martina, quindici anni, è morta dopo il trasporto in elicottero all’ospedale di Novara. E’ accaduto ad Armeno, lungo la Provinciale 142. Per capire come, per ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente, ci sarà tempo. Adesso, invece, è il tempo del dolore e delle riflessioni. Riflessioni che non possono non farci tener conto di quanto è accaduto appena pochi giorni fa anche a Jerez, durante la gara della SuperSport 300, con Dean Vinales che è morto ad appena 15 anni. La stessa età di Martina Lilla, lo stesso destino, anche se su moto diverse, discipline opposte e teatri del tutto differenti.
Ci si interroga tanto in questi giorni, ci si chiede cosa si può fare e si finisce, spesso a sproposito, anche a puntare il dito verso qualcuno, alla ricerca di un colpevole a tutti i costi. C’è anche chi, in un momento storico difficilissimo, arriva a interrogare il Parlamento in cambio di un filo di (strumentale e vomitevole) visibilità. Ma forse la verità è una sola e la sappiamo tutti da sempre. O, almeno, la sanno tutti quelli che la passione per le moto la vivono ogni giorno: in moto si muore. In moto si muore e non possiamo negarlo. Perché è non negandolo che si corre ai ripari, è non negandolo che si sta più attenti, è non negandolo che si persegue davvero una migliore sicurezza. E è non negandolo che si accetta anche che a volte, più spesso di quanto si possa credere, contro il destino non si può assolutamente nulla. Non è un inno al rischio, sia inteso, perché sfidare la vita senza tutelarla significa mancare di rispetto alla vita stessa, ma è semplicemente una presa di coscienza. Banale come è banale un dato di fatto e come è banale tutto ciò che è tremendamente realistico.
Ce lo ha detto il piccolo Vinales, ce lo ha ribadito la sorridente Martina e ce lo confermano, come un violentissimo pugno sullo stomaco, anche le lacrime di un padre a cui è toccato il peggiore degli accadimenti con la peggiore delle trame. Un padre a cui oggi, inevitabilmente, può non bastare la consapevolezza che l’esperienza di una passione condivisa con la propria figlia è un inno alla vita comunque. E’ tanto, ma non è niente, purtroppo. Quella moto, probabilmente, gliela aveva comprata lui, così come lui, altrettanto probabilmente, sarà stato quello che la ha accompagnata alle prime gare. Condividendo passione. Condividendo passione con sua figlia: che è la cosa più bella che possa capitare. E non serve starsi a chiedere se ci sono colpe, se si poteva evitare, se Martina (come Dean Vinales e tutti gli altri) non fosse troppo piccola per gestire una moto. Non serve a niente. E non serve a nessuno, se non a chi certi accertamenti deve farli per lavoro e per dovere di norma. A noi, noi che amiamo le motociclette e che magari coltiviamo il sogno di poter condividere una passione immensa con i nostri figli, serve, piuttosto, ricordarci due cose: in moto si muore (e quindi attenzione sempre altissima e prudenza come primo valore da mettersi in testa) e, anche se sembra un controsenso, in moto si vive. Perché c’è più vita, più luce, in una passione grande del buio profondo che, a volte, quella stessa passione può provocare. Martina, come Dean e come tutti gli altri, è morta mentre respirava vita a pieni polmoni. E, probabilmente, è l’unico filtro per metabolizzare i maledetti disegni del destino.