La battutaccia che qualcuno ha fatto oggi pomeriggio è cinica, ma chiarissima: “A Joan Mir basterà indossare la mascherina e stare distante da chiunque per diventare campione del mondo”. Ormai, infatti, è abbastanza palese che l’unico avversario del giovane spagnolo potrebbe essere il Covid19. Che, per carità, non si augura a nessuno e ancora meno a un ragazzo che sta per realizzare il sogno di una vita. E’ vero che nello sport non esistono certezze fino a che non è la matematica a fornirle ed è altrettanto vero, però, che a Joan Mir mancano solo tredici punti per mettere il sigillo sull’iride (gli basterà un podio). Tredici punti da fare in due gare, per un pilota che ha già dimostrato di saper essere costante e calcolatore, sono un nulla e adesso che è arrivata anche la prima vittoria (in stagione e in carriera) si può anche dire che se l’è ampiamente meritato. Gli altri, sia inteso, ci hanno messo del loro, così come del suo ce l’ha messo la sorte sin dal primo GP di Jerez, quando Marc Marquez è uscito definitivamente di scena almeno per tutto il 2020.
Ducati, alle prese con separazioni e mal di pancia interni, non ha approfittato della situazione, senza mai trovare la quadra tra le caratteristiche della Desmosedici e quelle delle nuove gomme Michelin. Honda, orfana di Marquez, ha provato a recuperare il gap, ma c’è riuscita quando il campionato era già alle sue battute conclusive e comunque con piloti non certo pronti a giocarsi il titolo. Ktm ha dimostrato di essere ancora acerba, pur rivelandosi, con tutta probabilità, la moto da battere nel futuro. Aprilia non è mai stata in partita e, infine, c’è Yamaha. L’impressione è che a Iwata si siano cullati (troppo) a lungo sulla convinzione di avere la migliore moto, così mentre gli altri testavano, sviluppavano, sperimentavano, in Yamaha andava avanti un lavoro di autoconvinzione che s’è dimostrato devastante. Risultato? “Ducati miglior motore”, “Yamaha moto da battere”, “KTM missile di buone speranze”, “Honda vincente a prescindere” si sono rivelati tutti luoghi comuni prontamente smentiti dai fatti. Perché tra le tante moto che eccellevano in qualcosa, alla fine a spuntarla è stata quella normale. L’impresa eccezionale, cantava anni fa Lucio Dalla, è essere normale. E in questo 2020 così strampalato, Suzuki lo ha dimostrato a tutti gli appassionati di motorsport.
Ci sono un volto, una voce e uno sguardo che, senza nulla togliere a Joan Mir e Alex Rins, però, impersonificano più di tutti l’inno alla normalità che Suzuki rappresenta. Sono il volto, la voce e lo sguardo di Davide Brivio. Uno che ad ogni intervista ad ogni occasione pubblica, ha tenuto il profilo basso di chi crede non nelle sparate, ma nella costanza. Non nei botti, ma nel rumore prolungato. Non nella fantasia, ma nel lavoro. A volte, ha detto ieri Stephen King commentando la vittoria di Biden alle elezioni americane, vincono anche i bravi ragazzi. Senza entrare nel merito della politica U.S.A., che francamente non interessa a chi scrive, quella di King è una frase bellissima. E che vale pure per il motomondiale 2020 per quello che Suzuki ha fatto vedere. A prescindere da come andrà, a prescindere se davvero Joan Mir o Alex Rins saranno campioni del mondo. Chi ha già vinto è Davide Brivio, un monumento vivente allo spirito del “testa bassa e pedalare” e, con lui, tutti quelli che nel team Ecstar hanno sposato questo modo di approcciare anche le corse in moto, solitamente fatte di veemenza, frenesia e spavalderia. C’è chi abbaia, chi morde, chi mostra i denti e chi, invece, lavora… e poi sbrana tutti. Senza alcuna ferocia, quasi con timidezza. Un messaggio straordinario, quasi un esempio da tenere a mente, di questi tempi in cui ci sarà da risollevarsi da una crisi mondiale senza precedenti.
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