Paola Egonu, pallavolista della nazionale italiana, è stata scelta, su indicazione del Coni, come una dei portabandiera del Cio. Che vuol dire? Che, su spinta del Comitato italiano, alla cerimonia di apertura di Tokyo 2020 sfilerà con la bandiera olimpica, quella a cinque cerchi (e non con il tricolore, come troppi hanno scritto anche tra i “grandi” dell’informazione).
“Che splendida notizia”, il commento del benpensante collettivo, indipendentemente dal fatto che sia un benpensante convinto o un opportunista che sui social si sente costretto a recitare la parte. Perché sarebbe una bella notizia? Perché la Egonu è nera e ha dichiarato di avere un orientamento sessuale fluido. E allora? Se fosse un maschio bianco eterosessuale (o anche una femmina con le medesime caratteristiche) non sarebbe stata una bella notizia? Evidentemente no, perché non sarebbe stato “un esempio di integrazione (non si capisce integrazione di cosa con cosa, visto che la Egonu è nata in Italia e, ha sottolineato qualcuno, è più italiana di Jorginho, ndr) e di promozione dei diritti Lgbt” (e infatti nessuno sa chi siano i ben più importanti portabandiera italiani, che da quest’anno in ossequio alla parità di genere – mamma mia, anzi, mamma e papà miei – sono due e sono Jessica Rossi ed Elia Viviani).
Così facendo si riduce quella che molti considerano attualmente la più forte pallavolista al mondo a una mascotte, a un grado di pigmentazione della pelle, a una preferenza a letto. A una bandierina a cui dare in mano una bandiera. E questa no, non è una splendida notizia. È la deriva della politica identitaria fomentata dalla “cultura” dominante ormai a quasi tutte le latitudini e a quasi tutte le longitudini. Una deriva che esacerba le differenze anziché esaltare i punti di comunanza. Una deriva che seppellisce l’individuo e l’individualità, che separa le persone in fazioni aizzandole una contro l’altra, che non integra ma disintegra, che propugna lo scontro, che esalta la diversità non come ricchezza e parte fisiologica della normalità ma come trincea nella quale rinchiudersi. Una dottrina, questa sì, segregazionista e a ben guardare persino tendenzialmente razzista.
Scegliendo (o esultando per la scelta di) Paola Egonu per il colore della sua pelle e/o per il suo orientamento sessuale si sminuiscono il suo valore sportivo e il suo valore umano. Il commento dovrebbe essere “Scelta giusta, perché è forte”, non “perché è donna”, “perché è nera” o “perché è lesbica o bisex”. È il contrario di ciò per cui si batteva Martin Luther King, che sognava un mondo in cui nessuno facesse caso al colore della pelle degli altri, ossia esattamente l'opposto del mondo attuale, in cui una persona viene scelta solo per rispettare una quota cromatica o di orientamento sessuale (o comunque si presta a tale strumentalizzazione).
Concluso il pippone, ecco perché la “splendida notizia” peraltro non è nemmeno questa gran notizia: ben 21 anni fa, in occasioni delle Olimpiadi del 2000, il portabandiera dell’Italia, dunque il titolare del più importante nonché unico ruolo previsto, era Carlton Myers, che in un’intervista dell’epoca su Repubblica si definì “un atleta negro” (evidentemente si poteva ancora dire e pure scrivere sui giornaloni).
Myers non era paladino di nulla. Era “solo” il più forte cestista italiano in attività (o comunque uno dei più forti) ed è passato alla storia come uno dei più grandi di sempre (in una partita segnò 87 punti. Ottantasette). Giocava, segnava, vinceva. Al massimo imitava Celentano. Nessuno o quasi (c'era sempre da mettere in contro il politico di turno, tipo la Melandri) all’epoca aveva parlato di “una splendida scelta”. Nessuno, almeno nell’ambiente del basket, vedeva nemmeno in Myers un nero: si vedeva solo uno forte a favore del quale (o contro il quale) tifare. Non c’erano i social, Internet era ancora nella fase 1.0, Wikipedia in italiano sarebbe arrivata solo l’anno dopo. C’erano le lire e non gli euro. Le Torri Gemelle erano ancora in piedi e non era ancora incominciata l’epoca del terrorismo internazionale e dello scontro di (in)civiltà, men che meno quella della pandemia. Non c’era il “virtue signalling” (l'ostentare quanto si è virtuosi e in linea con i valori-che-si-devono-avere). Non si era costretti a leggere cose indicibili come questa su Paola Egonu: “Non vuole essere descritta dalla nazionalità o dall'orientamento sessuale, pretende di essere tutto quello che sente e questa ostinazione, quasi un'insofferenza verso chi la vorrebbe più semplice da decifrare, l'ha resa specchio per tante persone in cerca di un riferimento”.
Insomma, si viveva, e si viveva quasi esclusivamente nel mondo reale, tutto sommato tranquilli. E vedere Carlton Myers con la bandiera italiana, dopo che con la nazionale italiana aveva appena vinto un europeo, era una cosa normale. Fu una scelta libera, spontanea, fatta forse con il retropensiero di promuovere l’idea di un’Italia che cominciava a essere multietnica, ma senza essere determinata dalla necessità di inchinarsi a una dittatura del politicamente corretto che fortunatamente non esisteva. Non c’erano fanatici a favore e, salvo eccezioni fisiologiche ai margini della società, non c’erano fanatici contro, e comunque nessuna delle due fazioni era abilitata a riversare le proprie puttanate sul web. Non c’erano partiti che sotto la foto dell’atleta nominato mettevano il proprio logo approfittando per chiedere una donazione (cosa vuol dire “portabandiere” riferito a una persona, poi? Cos’è, la lingua di Bruxelles?).
C’era un campione italiano con la pelle un po’ più scura degli altri che portava la nostra bandiera. Punto. E, al contrario di oggi, andava bene così.
E si passava sopra anche alle gaffe, come quella clamorosa del mitico Claudio Lippi durante la presentazione del Milan 1997-98 al Forum di Assago. Tra gli ospiti c’era anche Carlton Myers, fresco vicecampione d’Europa con la nazionale, e Lippi, evidentemente non sapendo che fosse italiano, gli si rivolse parlandogli in inglese.
Oggi il presentatore passerebbe dei guai, ma allora Carlton la prese sul ridere. E anche in questo caso, al contrario di oggi, andava bene così.