A 20 anni dal G8 di Genova, i punti di vista tra i commentatori rimangono ancora profondamente divergenti. È indubbio che sui media principali stia prevalendo una retorica celebrativa della battaglia ideologica del movimento “No global” (poi purtroppo tramutatasi anche in battaglia fisica), una retorica che ricorda giustamente le brutalità di una parte forze dell’ordine ma che tende a mettere in secondo piano la violenza di una parte dei manifestanti. Ma c’è anche chi risponde con una lettura diversa, più articolata e meno consolatoria (per quanto non necessariamente del tutto imparziale) di quei fatti e del loro impatto sul presente.
“Confesso: mi fanno orrore – le parole del direttore Maurizio Belpietro – le celebrazioni del ventennale del G8. Nel luglio del 2001, Genova fu messa a ferro e fuoco e un ragazzo venne ucciso mentre stava lanciando un estintore contro un carabiniere, dopo che i suoi compagni erano riusciti a far schiantare contro un muro l’auto delle forze dell’ordine. Che c’è da celebrare, dunque? Che cosa bisogna ricordare, se non la vergogna di un movimento che, sfruttando l’ingenuità di tanti giovani che volevano cambiare il mondo, li portò a una manifestazione che si rivelò violenta ed eversiva? A leggere in questi giorni le rievocazioni di ciò che accadde vent’anni fa, pare che un gruppo di bravi ragazzi si fosse dato appuntamento a Genova per manifestare il proprio punto di vista sulla globalizzazione. E gli apparati di uno Stato simil-cileno mobilitarono una polizia similgolpista per manganellare i partecipanti al corteo, costruendo poi prove false contro di loro. So che ci sono sentenze e anche che vari dirigenti della polizia sono stati riconosciuti colpevoli di vari reati, depistaggi compresi. Tuttavia, la verità dei tribunali è una cosa e quella dei fatti un’altra. A Genova si diedero appuntamento i peggiori contestatori d’Europa, i quali non avevano altro obiettivo se non di distruggere tutto ciò che avrebbero incontrato sulla loro strada. Auto, vetrine, uffici: tutto. […] A Genova si radunarono gruppi di casseur, cioè di teppisti, con l’obiettivo di sfasciare tutto e di accodarsi a chi aveva intenzione di violare la zona rossa. […] Volevano lo scontro per lo scontro, per poter dire che l’Italia è una dittatura e la sua polizia è uguale a quella di Augusto Pinochet. Ovviamente tutto ciò è falso. Le forze dell’ordine commisero vari errori e alcuni dirigenti anche reati, ma lo sbaglio più grande è essere cascati nel tranello dei black bloc, dei teppisti rossi, della marmaglia di contestatori con il sanpietrino. Il risultato è che a vent’anni di distanza, celebriamo Carlo Giuliani come fosse un eroe e non un hooligan con la bandiera rossa. A lui è dedicata una stanza del Parlamento e non si capisce perché il Parlamento non ne abbia dedicate altre alle vittime delle Br o dei Nar”.
E sugli ideali di quella battaglia, per Belpietro “come la storia ha dimostrato, i No global non avevano capito niente, perché grazie alla globalizzazione i Paesi ricchi non si sono arricchiti ancora di più alle spalle di quelli poveri, semmai è successo il contrario”.
Per Giorgio Gandola, che era sul posto, “spaccare tutto era l’ideale no global dominante in quel fine settimana di vent’anni fa dentro una Genova incendiata e terrorizzata. La stessa che viene descritta da qualche giorno nelle narrazioni mainstream come il teatro off in cui migliaia di giovani oratoriani intenti a cantare nenie furono ferocemente assaliti dalle forze dell’ordine italiane che dovevano proteggere (chissà da chi) i leader della Terra alloggiati sulle navi. È la grande mistificazione del G8, con il santino di Carlo Giuliani sull’altare di don Andrea Gallo (il cappellano dei ribelli) e la «macelleria messicana» della Diaz e di Bolzaneto. Tutto il resto non esiste. […] La strumentalizzazione cominciò il giorno dopo. Quando alla conferenza finale di Vittorio Agnoletto e Luca Casarini l’inviato di un giornalone si spazientì per le critiche ai violenti e gridò: «Ce ne fossero di più di anarchici al mondo, i bastardi sono i poliziotti»”.
Sui manifestanti, “la chiamavano «disobbedienza pacifica» ma le tute bianche di Luca Casarini e Daniele Farina non erano attivisti agresti che celebrano il ritorno della luna, bensì professionisti dell’anti-tutto. […] Alcuni, antagonisti estremi, violenti quando serve. […] «L’esercito degli straccioni» […] aveva fatto le prove generali nel dicembre 2000 a Nizza e a Ventimiglia durante un vertice europeo. Lacrimogeni e sangue, cariche e arresti. Stesso copione nella primavera 2001 al Forum di Davos”.
Sui black bloc: “Se la favola degli antagonisti alla Manu Chao resse un paio di notti, quella dei black bloc cani sciolti – per Gandola – crollò alle 10 di mattina di venerdì 20 luglio quando in piazza Tommaseo (fra Brignole e la Foce) esplose la prima molotov. Gli anarchici violenti si erano incistati – con passamontagna, anfibi militari e spranghe (distribuite da camioncini) – nel corteo dei Cobas”. L’esito? “Due giorni di guerriglia, ogni manifestazione era un cavallo di Troia per i violenti, valutati in circa 3.000 su 50.000 presenti. L’intelligence fallì, chi doveva arrivare a Genova era arrivato”.
Su Carlo Giuliani: “Due settimane prima del delirio genovese accadde un fatto strano: il fronte mondialista-ecologista si ruppe. Gli Amici della Terra e altre sigle presero le distanze dalle proteste annunciate al G8: «Ci saranno troppi violenti, noi stiamo a casa». Nel tam tam del Web era chiaro: quella doveva essere l’Olimpiade della distruzione. In quell’assalto collettivo premeditato perse la vita Carlo Giuliani. Ragazzo problematico, si fece trovare a volto coperto e con in mano un estintore in piazza Alimonda, nell’atto di scagliarlo dentro una camionetta dei carabinieri bloccata e circondata da una ventina fra black bloc e scalmanati all’assalto. Fu ucciso per legittima difesa dall’ausiliario Mario Placanica che ieri ha detto: «Da 20 anni vivo in una prigione infinita»”.
Sulla cronaca a senso unico: “Il ruolo della stampa fu fuorviante: erano no global anche editorialisti che oggi difendono la globalizzazione con la mitragliatrice. Per spiegare la faziosità basta un dato: fra chi manifestava contro lo Stato c’era il segretario della Fnsi, Paolo Serventi Longhi. La narrazione fu a senso unico e lo è ancora. Registi come Gillo Pontecorvo, Citto Maselli, Gabriele Salvatores calarono a Genova per riprendere gli scontri dalla parte dei dimostranti: le loro cineprese erano rivolte solo alle azioni della polizia”. E ancora: “Mentre intellettuali e media gongolavano per gli antagonisti, per ristabilire l’ordine furono necessari 6.000 lacrimogeni in due giorni. La città martoriata ringraziò a modo suo gli ultrà santificati: l’ultimo corteo del sabato fu preso di mira dalle sassate della gente esasperata. Chissà dove sono finiti i video”.
La parabola di tre leader dell’epoca: Caruso, Casarini e Agnoletto
Francesco Caruso, “che divenne famoso come leader dei no global napoletani, si fece un giro in Parlamento tra il 2006 e il 2008, sotto le insegne di Rifondazione comunista. Crollato il partito – sottolinea Francesco Borgonovo – è sparito anche lui dalla scena. Si è preso un dottorato all’Università della Calabria e dal 2015 insegna (a contratto) sociologia all’Università degli studi Magna Graecia di Catanzaro. Si era dichiarato «sovversivo a tempo pieno», ma al massimo è riuscito a provocare qualche secondo di polemica digitale quando, nel 2019, ha pubblicato sui social un commento a favore di Cesare Battisti”.
Luca Casarini “(già a capo dei Disobbedienti) ha goduto di maggior visibilità, ma non di maggior gloria. Imploso il movimento antiglobalista, Casarini svanì per un po’ dai radar, per riapparire nel 2009. Sentì il bisogno di rilasciare un’intervista al Corriere della Sera in cui dichiarò di aver aperto una attività di consulenza, e di aver capito che i nuovi sfruttati erano i possessori di partita Iva. Sembrò, per un soffio, che avesse compreso lo spirito del tempo, ma era solo una trovata per promuoversi. Dato che con il lavoro non gli era andata proprio benissimo, cinque anni dopo si candidò alle Europee nella lista Tsipras, ma non fu eletto. Nel 2017 divenne segretario di Sinistra italiana in Sicilia, ma la vera svolta avvenne nel 2019, allorché fu scelto come capo missione della nave Mare Jonio dell’Ong «istituzionale» Mediterranea. Come sia andata a finire lo sappiamo: indagato dalla Procura di Ragusa con l’accusa di aver imbarcato immigrati in cambio di soldi. I più, adesso, lo ricordano per la frase: «Domani a quest’ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare». Secondo gli inquirenti, l’avrebbe pronunciata dopo aver ricevuto un bonifico da 125.000 euro che sarebbero serviti a finanziare il trasbordo di 27 migranti”.
Vittorio Agnoletto, “medico, anche lui oggi insegna all’università, per la precisione «Globalizzazione e politiche della salute» […] all’Università degli Studi di Milano» (anche lui, come Caruso, è a contratto). Inoltre, spiega sul suo sito, opera «come medico del lavoro in alcune aziende e nelle commissioni sull’invalidità dell’Inps». È stato proprio Agnoletto, nei giorni scorsi, a pronunciare parole piuttosto decise: «Vent’anni dopo», ha dichiarato, «possiamo dire di aver avuto ragione su tutto»”. Ma è davvero così? Non per Borgonovo.
Cosa resta dei No global?
Per Borgonovo “la lotta alla globalizzazione – specie se guardiamo ai disastri che ha prodotto un po’ ovunque, specie in Occidente – aveva dei fondamenti. Era giusto opporsi all’azione livellante di quello che Giulio Tremonti ha chiamato «turbocapitalismo». Era sacrosanto difendere le comunità, i cibi locali, i diritti dei lavoratori, le specificità culturali. I No global di allora, però, non lo hanno fatto. Non sono stati sconfitti, come ha scritto qualcuno, dalla repressione violenta della polizia, bensì dalla ristrettezza delle loro vedute. Al globale non hanno opposto il locale, le tradizioni, i confini. No: si sono rifugiati in una caricatura del comunismo. […] Si sono adagiati nelle banalità «antagoniste», e ovviamente nel terzomondismo. Mentre i no global se la prendevano con McDonald’s (e, in Italia, si facevano inghiottire dall’antiberlusconismo), le multinazionali che essi avversavano si sono prese e mangiate tutti i loro temi, e li hanno trasformati in strategie di marketing. Sono le grandi corporation, oggi, a portare avanti la rivoluzione green. I ribelli hacker che alla fine degli anni Novanta apparivano come la nuova frontiera della sedizione si sono rifugiati nella Silicon Valley a incassare milioni grazie al controllo sociale. […] Oggi è l’intero sistema mediatico-politico a tifare per l’abolizione dei confini. Insomma, tutti i temi forti dei no global hanno finito per nutrire il capitalismo, non per abbatterlo. Hanno alimentato la globalizzazione, non l’hanno affatto arrestata. È vero: Greta è nata a Genova. Nel senso che – conclude Borgonovo – la Thunberg ben simboleggia i ribelli dei nostri giorni, che sono totalmente integrati, se ne stanno al caldo nel ventre del potere, dalle auto distrutte nella zona rossa sono finiti a prendere applausi a Davos”.