Pierpaolo Capovilla, già frontman di One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori, è un rocker intellettuale (o un intellettuale rocker) appassionato. Dichiaratamente comunista (è iscritto al nuovo Pci, “non quello di Rizzo”, specifica), in questi giorni si è espresso sui social riguardo ai vent’anni dal G8 e su quanto è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Temi peraltro già toccati anche in musica. Temi di cui ha accettato di parlare con MOW.
A vent’anni dal G8 si ritorna a parlare di (e soprattutto a vedere) episodi di brutalità da parte delle forze dell’ordine. Che effetto ti fa?
“C’è evidentemente all’interno delle forze dell’ordine del nostro Paese – dice Capovilla – un problema del tutto irrisolto di educazione ai principi democratici. È un problema di cui dobbiamo renderci conto come società civile e mi auguro anche come società politica. Ho un po’ l’impressione che la politica tema in qualche maniera le forze dell’ordine. «Cerchiamo di non disturbarli, lasciamoli fare, perché di sì». E invece dovrebbe essere un «perché di no», perché qui c’è qualcosa che evidentemente non sta funzionando. Ed è a causa dei poliziotti, non a causa dei detenuti o di chi scende o scendeva in piazza. Abbiamo visto le scene. E di fronte alla visione di cose che finalmente abbiamo potuto vedere chiare e tonde non possiamo che restare esterrefatti. Naturalmente una parte di noi che conosce un po’ come funzionano le cose nelle carceri in Italia (perché ce ne interessiamo) già sapeva o sospettava che funzionava così, però di fronte a quelle immagini non possiamo che rimanere sconvolti dal punto di vista morale, etico, politico e democratico. Qui vengono calpestati tutti i quanti i diritti costituzionali (dal primo all’ultimo) dei cittadini del nostro Paese. Un cittadino rimane tale anche quando è detenuto, anzi, è ancora più cittadino perché è nelle mani dello Stato. E in questo fatto di essere nel giogo statuale della pena è chiaro che se vengono meno i diritti vuol dire che c’è qualcosa di disfunzionale. Facciamocene una ragione e cerchiamo di trovare delle soluzioni”.
C’è chi chiede il numero di riconoscimento per gli agenti.
“Credo che questo sia il primissimo passo che andrebbe fatto, anche perché in Europa è assolutamente normale. Non ci scriviamo il nome, il cognome, l’indirizzo e il codice fiscale, ci scriviamo un numero di riconoscimento che possa far sì di attribuire delle responsabilità a quell’individuo in maniera specifica, piuttosto che a un gruppo non meglio specificato senza mai capire chi sia il colpevole di certi comportamenti che ledono non solo la legge ma anche il comune sentire”.
E poi?
“Poi io penso che debba essere fatto un ragionamento (e qui è il legislatore che ci deve pensare, noi possiamo solo indurlo a farlo, in un modo o in un altro) di riforma delle forze dell’ordine in Italia. Perché chi va in polizia? Ci vanno ex militari nel 90% dei casi (Non c’è più il concorso civile). Questi ce l’hanno una cultura democratica? Che cosa pensano dei cittadini? Che siano dei nemici in guerra contro di loro? Si tratta di psicologia del lavoro. È un problema vero sul quale il legislatore deve riflettere: in volante ci finisce l’ex soldato, che magari ha combattuto in Afghanistan. Dunque abbiamo a che fare con personalità professionali assolutamente diverse. Mi dispiace accennare a questo sospetto, ma è un sospetto perfettamente legittimo, per come la vedo io. In polizia ci dovrebbero andare i civili: il militare ha una postura intellettuale diversa da quella che può avere un civile, mi sembra del tutto evidente”.
Vedi un collegamento tra quel che accadde a Genova e quel che è successo a Santa Maria Capua Vetere? In fondo parrebbero in entrambi i casi “metodi” adottati per affrontare delle proteste.
“A Genova c’era al governo Berlusconi, il ministro dell’interno era Scajola, poi c’erano Fini e Castelli. Abbiamo visto con chiarezza cosa può fare lo Stato nei confronti dei movimenti progressisti che combattono il sistema capitalistico nel quale viviamo. Le istanze e le ragioni di quella lotta sono ancor più valide oggi che non allora. Quei ragazzi parlavano di clima e due decenni dopo vediamo cos’è successo al riguardo. Dal punto di vista politico avevano ragione. A Genova c’erano tutti, non solo anarchici, comunisti e Fiom, ma anche l’associazionismo cattolico. E tutti si sono presi un fracasso di legnate mostruoso. Il messaggio fu: «Vivete in un Paese democratico, potete manifestare, ma da questo momento in poi lo farete a vostro rischio e pericolo». L’ur-fascismo di cui parlava Umberto Eco che serpeggia nel nostro Stato si è sentito libero tutto quello che voleva, con esiti grotteschi come la Diaz e ancor di più Bolzaneto: si è trattato di una violazione dei diritti costituzionali di tutti e nessuno ha nemmeno chiesto scusa. Da allora non è cambiato niente, perché altrettanto intollerabile è ciò che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere, ma non solo lì, perché durante le proteste in occasione del primo lockdown ci sono state decine di morti anche in altre carceri. Cose che gridano vendetta e che pretendono giustizia (va fatta un’inchiesta parlamentare di quelle belle serie) e una riforma dei corpi di sicurezza del nostro Paese, a cominciare di quello che si occupa delle carceri. Ci vuole educazione alla Costituzione e ai principi democratici: senza questa preparazione un poliziotto non può essere un buon poliziotto. Non ce la fa”.
Tornando al G8, tu hai avuto modo di dire che l’antagonismo quel giorno è finito.
“La sconfitta è stata cocente e la ferita è ancora aperta. Ma non solo per i compagni comunisti o gli antagonisti, che non si vogliono neanche chiamare più così, ma politici attivi. Guai se non ci fossero questi ragazzi che non si iscrivono ai partiti ma fanno politica ogni giorno. A Genova hanno fatto paura a tutti, anche ai vecchietti di Pax Christi che non sono più tornati a manifestare. Che cosa vogliamo fare della nostra democrazia? Vogliamo fondarla sulla paura o sul consenso? Tra l’altro noi per ogni servizio (polizia, carabinieri, finanza) abbiamo un reparto antisommossa. Vuol dire che ci teniamo particolarmente a combattere questo tipo di fenomeni”.
Però tu hai sempre detto che per esempio negli Stati Uniti da questo punto di vista sono messi peggio. Ti sei ricreduto?
“No, no… Negli Stati Uniti ne uccidono 2.000-2.500 ogni anno. È come se qui da noi ogni anno ci fossero 500 Cucchi o Aldrovandi. Per noi sarebbe inaccettabile, perché siamo un Paese democratico. L’America invece non lo è. Gli Stati Uniti sono una finzione della democrazia, una dittatura del capitalismo, dove la legge prevale sul diritto alla vita degli individui: se violi la proprietà privata, la tua vita non conta niente. Da noi invece prima viene la vita delle persone, poi il capitale. Almeno, speriamo che così continui a essere. Tanto sono tutti assicurati: dove sta il problema? Da noi purtroppo capita che la Costituzione democratica venga violata, anche da uomini in divisa, ma almeno noi ce l’abbiamo”.
Politicamente le battaglie su temi come quelli espressi al G8 che tu ritieni ancora attuali hanno un qualche veicolo tramite il quale esprimersi?
“Io sono nel Pci, Partito Comunista Italiano (segretario Mauro Alboresi), l’ultimo nato nella galassia dei partiti comunisti italiana: ci sono il partito di Rizzo, Rifondazione con tutte le sue correnti, il Partito Comunista dei Lavoratori, i gruppi leninisti, Potere al Popolo… Ce ne sono tanti…”
Anche troppi, no? Considerando che in questo modo non si riesce a creare alcuna massa critica.
“Basterebbe fare un partito unico, mettersi d’accordo su dieci cose e chi s’è visto s’è visto. Un partito unico magari senza Rizzo, visto che a lui piace seguire la destra sul suo stesso terreno, come quello dell’immigrazione (“aiutiamoli a casa loro”) o dei diritti (separazione tra diritti sociali e diritti civili). Finché saremo così disuniti, incontreremo sempre e solo sconfitte. Questo a livello elettorale, perché invece a livello della quotidianità noi siamo vincenti: se non ci fossimo noi comunisti e i cattolici di base questo Paese sarebbe già allo scatafascio, in un precipizio post-moderno di un nuovo fascismo populista e sovranista. Quello che vorrebbero il signor Salvini o la signora – come si chiama? – Meloni”.
Veniamo alla musica. A un anno dall’annuncio della fine del Teatro degli Orrori, che piega ha preso la tua carriera?
“Proprio un questo momento sto facendo la produzione artistica del disco di un gruppo che si chiama Brando. Dopodiché ho registrato in studio a Ferrara l’album di Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri che uscirà, me lo auguro, entro la fine dell’anno. Un disco che parla di guerra, perché sono nato nel 1968, durante la guerra del Vietnam, e in 53 anni ho visto solo guerre. Però non parla solo di guerra nel senso di missili, mine antiuomo e proiettili, ma anche di guerra interiore e domestica. Quando si prevarica si comincia a prevaricare chi ci sta vicino, poi la cosa si espande a tutto l’universo, compresi gli animali. Abbiamo dovuto attendere e stiamo ancora attendendo gli sviluppi delle circostanze storiche per capire quando uscire: per me il rock non si può fare se non in piena presenza di pubblico. Spero che questa pandemia cessi, perché voglio tornare al più presto sul palco. Per me è una questione di vita o di morte”.
A proposito di rock, che ne pensi del successo dei Måneskin?
Spero che il rock torni a essere ascoltato. Sono stufo delle nuove mode, dell’ultrapop e della trap, che mi ha proprio rotto i coglioni. Ma il rock tornerà. Del resto, i Måneskin sono primi al mondo (ride). Per essere rock sono rock, poi a me fanno schifo, ma è una questione di gusto personale. Io non sentivo alcun bisogno del ritorno del glam, del ritorno di Alice Cooper: questo è puro passatismo. In ogni caso auguro a loro grande successo, ma per il semplice motivo che se ritorna il rock può tornare il rock in tutte quante le sue sfumature, anche quelle più massimaliste che io amo e sposo da sempre. I Måneskin sono giovanissimi e hanno conosciuto una fama improvvisa che sconvolgerebbe la vita a chiunque: auguro loro di poter crescere e di poter un giorno pubblicare un bel disco con dentro delle belle canzoni e dei contenuti veri, che facciano pensare e agire le persone. Il rock serve a questo. A smuovere le coscienze intorpidite dei più giovani”.