Foto agghiaccianti, titoli che fanno sanguinare gli occhi e poi la solita sfilza di Rip. E’ così che si presentano i social in una domenica sera di prime temperature miti e fine lockdown per chi è appassionato di moto ed ha inevitabilmente creato una sorta di bolla che presenta quasi esclusivamente notizie che hanno in qualche modo a che fare con le motociclette. Sembra un bollettino di guerra, una strage che neanche la pandemia e che non risparmia regioni. L’elenco, purtroppo, potrebbe essere di decine di nomi e forse qualcuno ne dimenticheremmo anche. Il solito inizio di stagione, diranno i più cinici. Ma alla morte non si dovrebbe mai fare abitudine. Anche perché, se andiamo a stringere, c’è sempre di mezzo la distrazione, una precedenza non rispettata e nella stragrande maggioranza dei casi i motociclisti sono stati quelli che hanno pagato. Non quelli che hanno sbagliato. O comunque non i soli ad aver sbagliato.
Per carità, i processi si fanno caso per caso e comunque mai sui giornali, i rilievi e le ricostruzioni delle dinamiche spettano a chi fa questo di mestiere, il dolore è, invece, sul cuore di chi quelle storie le aveva incrociate. A noi, noi che la passione per le moto ce l’abbiamo dentro da sempre, resta però il dovere della riflessione, magari anche per puntare il dito verso una necessità di attenzione che ci riguarda, non fosse altro che per l’amore di chi ci ama. Che non significa il solito appello alla prudenza, a non esagerare, a non andare più forte di quanto (come si dice sempre nelle solite frasi dei motociclisti) il nostro angelo custode possa starci appresso. Queste sono cose che attengono alla coscienza di ognuno e che ognuno di noi dovrebbe avere ben chiare dentro, senza la necessità di alcun grillo parlante. La necessità di attenzione che ci riguarda è quella che, invece, dobbiamo pretendere, spiegando ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo a chiunque – anche a noi stessi con i comportamenti - che il motociclista non è colui che, sbattendosene il cazzo della vita e degli affetti, va a giocarsi la pelle come in una macabra roulette russa. In strada ci siamo anche noi e tutti gli altri farebbero bene a capirlo. Dalla vista privilegiata di una moto non è difficile vedere cosa fa la gente dentro le macchine, quanti occhi sono fissi sugli smartphone e quante mani armeggiano con auricolari e cazzeggiamenti vari. Per i ciclisti hanno fatto le leggi, per i motociclisti, invece, si fanno cartelloni che gridano vendetta. Come se noi morissimo perché stacchiamo due dita dal manubrio per salutarci e non perché agli incroci i motociclisti non fanno parte della categoria dei “veicoli che sopraggiungono”, o perché i gard rail ci segano come lame roventi nel burro, o ancora perché le strade sono ridotte a concentrati di terrore e una giornata in pista costa cifre che in pochi possono permettersi.
Certo, ci sono quelli che esagerano, quelli che la famosa vena ce l’hanno più attappata che stappata. Ma sono una parte, una minoranza. Da stigmatizzare. Lo dobbiamo a noi, a chi ci vuole bene, ma lo dobbiamo anche a Chiara e Danilo, ad esempio. Chi erano? Erano una figlia e un padre del Bresciano, lei ventisette anni e lui cinquantacinque, morti dalle parti di Cremona dopo lo schianto con un suv in un incrocio che già più volte in passato era stato teatro di tragedie analoghe. Un padre e una figlia che non appartenevano certo alla minoranza con la vena attappata, ma che stavano tra tutti gli altri. Quelli che godono del senso di libertà che ti dona una moto, della vita che si respira sotto il casco, degli scorci che ti riempiono gli occhi dietro ogni tornante. Abbracciati in un contatto che anche un padre quasi anziano e una figlia ormai grande possono ritrovare (moto-magie). Avevano promesso che sarebbero tornati per il pranzo, ma quel pranzo Danilo e Chiara non lo consumeranno mai. Così come vuota sarà la tavola nel posto di Sara, 27 anni di Castelfranco, anche lei morta dopo l’impatto con una Range Rover mentre era in moto, esattamente come Leonardo di Milano Marittima, che di anni ne aveva solo 17 e che non c'è più per una mancata precedenza, mentre la sua fidanzatina, che era in sella con lui, lotta tra la vita e la morte. In un fine settimana che fa venire l’angoscia solo a scrivere tre parole su google: morti-in-moto. Perché i risultati in questa maledetta domenica di maggio sono decine. Decine di storie di rara umanità che avevano in comune una passione immensa e un destino atroce. Come Manuel, 25 anni a giugno, di Pesaro, finito contro uno di quei gard rail che non ti lasciano scampo, o ancora come Ferruccio, che di anni ne aveva 60 e che è morto a Idro dopo che la sua Ducati si è scontrata frontalmente con un’auto, proprio come Mauro, sessantacinquenne di Bergamo, o Serghei, venticinquenne di Treviso, che in sella aveva anche la sua fidanzata. Vite che non ci sono più. Motociclisti. E l’elenco potrebbe essere purtroppo molto, ma molto più lungo, restando solo nelle ultime 48 ore.
Senza prediche, sia inteso. Ma attenzione, cazzo! Attenzione da tenere, attenzione da pretendere. Mai più un fine settimana così, per favore!