C’è una canzone di Vasco Rossi che ogni volta che gira mi fa pensare a Diego Armando Maradona. In verità non tutta la canzone, ma una frase: “E mi ricordo chi voleva al potere la fantasia”. Funziona così con le frasi delle canzoni, come coi colpi di tacco e le giocate straordinarie: momenti, fasi che magari sono messe lì perché ci stanno bene e basta. Perché sono venute sull’istante. Impulsi. Ma la mente e l’occhio umano non li giustificano mai gli impulsi e vogliono comunque sempre una spiegazione.
Che significa “al potere la fantasia”? Me lo chiedo ogni volta che Stupendo gira da qualche parte e ogni volta penso a Diego Armando Maradona impegnato nel riscaldamento al San Paolo, mentre sembra in trance in una sorta di danza che somiglia più al rito di uno sciamano che all’esercizio di un atleta. Una danza magica interrotta solo da qualcosa di ancora più magico che irrompe nella scena: il pallone. L’immagine di quell’uomo piccolo, anche sgraziato, dalla postura strafottente che prima danza come non farebbe nessuno, preferendo il misticismo allo stretching, e poi prende tra i piedi il pallone quasi animandolo. Mentre un intero stadio si lascia andare ad una ovazione silenziosa puntando gli occhi verso un solo uomo col suo pallone. Eccola, è da sempre, per me, la rappresentazione perfetta di quella frase. “Al potere le fantasia”.
Al genio si associa il genio, all’evoluzione si associa la metrica. Sempre la solita storia: o prosa o poesia! E in mezzo non c’è niente, mai! Solo vani tentativi di non essere qualcosa di netto e definito, solo mezze misure. Quelle che Diego Armando Maradona non ha avuto. E grazie a Dio, mi viene da aggiungere! Perché gli eccessi li scegli, è vero, ma è vero anche che a volte sono gli eccessi a sceglierti. E per la radice stessa della parola che li esprime, gli eccessi non saranno mai troppi. Quindi no, quelli che oggi piangono il calciatore badando bene di distinguerlo dall’uomo, quelli che oggi parlano di uno sportivo che ha ceduto ai troppi eccessi, non sanno quello che dicono. Fingono di non sapere, insomma, che chi nasce per la prosa non potrà mai capire la poesia. Figuriamoci i poeti. E il vero colpo di tacco, la vera maradonata che potremmo fare oggi, tutti, è accettare la nostra natura di comuni mortali.
C’è chi nasce e, al massimo, può ambire a diventare un grande e chi, invece, nasce direttamente immenso e deve solo trovare il talento che gli consente di esprimere la sua natura. Gli eccessi non c’entrano. E se c’entrano fanno parte dell’uomo e del giocatore: quei gesti, quei colpi di piede e di genio, non sarebbero esistiti senza gli eccessi. Così come non esisterebbe la poesia di un determinato poeta senza la vita di quel poeta. L’opera di D’Annunzio è figlia di quell’uomo e della vita che ha condotto. Come Caravaggio. Come Bukowski. Quelli che le redini le avevano affidate alla fantasia, sapendo che non sa condurre o, al limite, che conduce a modo suo, fuori dalle strade già battute e su percorsi da inventare. Anche cadendo, tornando indietro, inciampando. Sbagliando. Quindi oggi, per favore, restiamo sui ricordi, ognuno il suo, ma almeno per una volta, una cazzo di volta in questo anno schifoso per chiunque, mettiamo in quarantena i giudizi. E mettiamo al potere lei: la fantasia.
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