“Ho cercato di rianimare Renzo fino a che non sono svenuto. Di Jarno, invece, era rimasto ben poco ed è stato subito chiaro che non c’era nulla da fare. Quel giorno è nata la Clinica Mobile, per assistere i piloti sul principio che la follia è la vera saggezza”. E’ il racconto del dottor Claudio Marcello Costa, che così rivive quel giorno nel suo film “Voglio Correre”. Quel giorno era ieri, di 47 anni fa: 20 maggio 1973, la data che segnerà per sempre la storia del motorsport e dell’autodromo di Monza. Il giorno in cui persero la vita Renzo Pasolini e Jarno Saarinen, due figli di madri differenti, tradizione e innovazione, e dello stesso padre: il rischio. Una passione grande, quella per la velocità, come il nome del pezzo di asfalto in cui sono rimasti uccisi: la Grande Curva.
Su come andarono le cose si è detto tanto e di tutto. In 47 anni quello che accadde quel giorno è stato analizzato in ogni modo. Rottura di un pistone della Aermacchi Harley Davidson di Pasolini, è la versione ufficiale. Forse pista sporca d’olio dopo la gara delle 350 (che era stata vinta da Agostini) racconteranno invece molti piloti. Ma la sostanza non cambia: Renzo Pasolini, 34 anni, e Jarno Saarinen, 27, hanno chiuso lì la loro carriera e la loro vita. In quell’incidente rimasero coinvolti 13 piloti, in un inferno di corpi, di fuoco e di balle di paglia. “Pasolini – racconta ancora il dottor Costa nel suo film – ha lottato per diversi minuti tra la vita e la morte. Saarinen, invece, aveva perso il casco dopo l’impatto con la moto di Pasolini e nel tentativo di mettersi in salvo fu travolto da un’altra moto e morì sul colpo”.
Cronaca trita e ritrita. Ormai anche consumata dal tempo. Ma chi erano e perché Renzo Pasolini e Jarno Saarinen hanno segnato un’epoca e due modi di essere veloci?
Italiano il primo. Romagnolo puro, tanto da trovarsi spaesato e quasi frenato nelle vittorie, quando era chiamato a correre fuori dalla sua terra. È all’eredità lasciata da Pasolini che probabilmente si deve l’inizio di quella tradizione “Romagna, terra di motori” che ha sfornato e sforna fior di campioni. È stato l’unico capace di impensierire in Patria la leggenda di Giacomo Agostini. Uno di poche parole, ma sempre calibrate per colpire il cuore della gente: “Io corro per correre, poi se vinco tanto meglio”. Insomma, un interprete senza tempo di quella genuità che risulta timida e insieme spavalda. Semplice, ma fenomenale. Comune, ma unica.
Un figlio della tradizione motoristica di allora, fatta di piloti guasconi e tutt’altro che mediatici, che con il suo talento ha rinnovato quella stessa tradizione senza segnare punti di rottura.
Il contrario di Jarno Saarinen, uno che, invece, è stato figlio dell’innovazione. Un finlandese che voleva progettare motori da corsa e che a soli 24 anni si laureò in ingegneria. Salvo poi accorgersi, grazie alle corse folli con il carro funebre di famiglia, che i motori sapeva farli correre anche senza progettarli. Quel carro funebre, all’inizio della sua carriera, diventò un furgone per andare alle gare, insieme alla bellissima donna, Soili, con cui ha scritto, da inseparabili, le pagine ancora oggi più romantiche della storia del motociclismo. Guidava in modo diverso e lo guardavano con diffidenza. Fu lui ad inventare il piede interno fuori in staccata, che vediamo ancora oggi, e il sedere spostato rispetto all’asse della moto in piega verso la curva.
L’ultima immagine del pilota che avrebbe forse spodestato Agostini lo ritrae proprio così, pronto a trovare la sua posa prima della Curva Grande di Monza. Poi l’incontro con il destino che ha voluto che i due fratelli di madri diverse, la tradizione per uno e l’innovazione per l’altro, trovassero la morte insieme. Ieri, 20 maggio, di 47 anni fa.