Per anni ci hanno insegnato che solo gli sciocchi non cambiano idea e catechizzato su un futuro sarebbe stato silenzioso (o fastidiosamente sibilante), verde scintillante e colonnine ovunque. Oggi, finalmente, sappiamo che, invece, anche gli sciocchi cambiano idea: sì, l’Unione Europea sta facendo marcia indietro (a gas apertissimo) sulla data di morte annunciata dei motori termici. Quel mondo dove le automobili, come lavatrici con le ruote, avrebbero obbedito docilmente a una presa elettrica e a una visione ottusamente ideologica presentata come inevitabile progresso s’è attorcigliato sui suoi stessi cavi. Rischiando, tra l’altro, di lasciare strozzati colossi come Porsche e non solo. Se guardi oltre la curva, dicono i piloti, arrivi al traguardo con la giusta velocità, se invece guardi la curva trovi il muro. E che muro. La Germania – locomotiva d’Europa e tempio della meccanica e del motore affidabili (per la bellezza, scusate, l’unico tempio è l’Italia, ndr) – ci ha sbattuto contro con tutto il peso della sua industria. E l’Unione Europea, dopo aver fatto da navigatore, è dovuta tornare sui sedili piuttosto che sulle nuvole.
Ok, hanno detto che la retromarcia sul divieto totale di motori endotermici dal 2035 è una gentile concessione alla “neutralità tecnologica”, ma a Bruxelles sono bravi da sempre a rigirarsela. La verità è che è un disperato atto di sopravvivenza. E ravvedimento. I numeri, quelli veri, raccontano infatti una storia più grigia che green. La produzione automobilistica europea è passata dai 21 milioni di veicoli pre-Covid a meno di 17 milioni, con prospettive stagnanti al 2030. Nel frattempo la Cina, che l’elettrico lo ha imposto quando aveva energia a basso costo, filiere integrate e manodopera competitiva, avanza come un caterpillar: e oggi controlla già quasi il 10% del mercato europeo e punta al 13% nel giro di pochi anni. Trovando la sua forza nel poter immettere sul mercato prodotti che saranno quello che saranno, ma non costano l’ira di Dio.
La Germania in particolare, che aveva accettato l’elettrico come espiazione post-Dieselgate e come tentativo di inseguire la Cina sul suo terreno, oggi paga il conto più salato. Volkswagen chiude impianti, ristruttura, licenzia. L’industria manifatturiera perde occupazione, il PIL galleggia attorno allo zero e la parola “deindustrializzazione” ormai suona quasi normale persino sulla bocca degli stessi industriali tedeschi. Signori, non è più solo la crisi di un modello, ma proprio un corto circuito. Insomma: l’elettrico, che doveva essere il futuro, è diventato un presente che non regge. Costa troppo ai cittadini, costa troppo alle imprese e costa carissimo agli Stati. Le auto elettriche rimangono mediamente fuori dalla portata della classe media europea, mentre le infrastrutture di ricarica crescono con la stessa velocità di una pratica edilizia comunale a agosto. Nel frattempo, l’energia in Europa è tra le più care dell’OCSE: un dettaglio che nelle slide della Commissione tende misteriosamente a sparire.
Così, mentre persino gli sciocchi cambiano idea e, quindi, mentre Bruxelles scopre che imporre per legge una tecnologia non crea mercato e nemmeno consenso, c’è già, giustamente, chi è pronto al revisionismo del revisionismo ecoideologico e arriva oggi a affermare quello che chiunque dotato di un minimo di buon senso ha sempre affermato: l’elettrico non è neutro, né economicamente né ambientalmente, se lo si osserva lungo l’intero ciclo di vita. Batterie, materie prime, dipendenza geopolitica, smaltimento: dettagli fastidiosi per i fanatici degli slogan green. La marcia indietro della UE – quel 90% di riduzione invece del dogmatico 100% – è quindi una confessione implicita. Senza dirlo apertamente, si ammette che ibridi, motori termici evoluti, carburanti alternativi e soluzioni miste resteranno indispensabili. Non per nostalgia, ma per necessità. La vera strada, se davvero si vuole ridurre l’impatto ambientale senza distruggere il tessuto industriale e sociale europeo, è un’altra.
L’elettrico ha senso, e molto, nella mobilità urbana: brevi percorrenze, ricarica notturna, trasporto pubblico e flotte condivise. Fuori dalle città, invece, la risposta non può essere un’unica tecnologia imposta dall’alto. Qui entrano in gioco i biocarburanti avanzati e i carburanti sintetici: soluzioni meno ideologiche, più pragmatiche, capaci di valorizzare infrastrutture esistenti, competenze industriali, ricerca. E, per fortuna, pure passione e emozioni. Salvare l’ambiente non può significare mettere le ruote alle lavatrici e pretendere di chiamarle automobili. Significa, piuttosto, smettere di confondere la transizione con l’imposizione e la sostenibilità con il marketing. L’Europa ha finalmente fatto retromarcia. Ora speriamo impari anche a sterzare.