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“Lotto fino alla morte mentre gli spettatori mangiano panini al formaggio”: il compleanno di John McEnroe

  • di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

15 febbraio 2021

“Lotto fino alla morte mentre gli spettatori mangiano panini al formaggio”: il compleanno di John McEnroe
Un po' come il calcio, un po' come il motorsport, un po' come la politica e la televisione. Per chi ha vissuto l'era di John McEnroe il tennis "non è più quello di una volta", anche e soprattutto ora che quell'americano con i capelli cotonati e il carattere impossibile ha ormai abbondantemente superato i sessant'anni

di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

Il tennis è uno sport strano, lo è sempre stato. Cambia faccia a seconda dei luoghi in cui in cui viene giocato, così aristocratico sul prato verde e curato di Wimbledon, muscoloso sulla terra rossa di Roland Garros, e sempre un po' imprevedibile sul cemento blu degli US Open. 

Ha cambiato circoli, protagonisti, campi, regole e punteggi, ma rimane un universo a parte tra gli sport internazionali. In cui il singolo si mischia con il doppio, le rivalità si trascinano per anni, dove serve avere pazienza - sia come spettatori che come giocatori - e in cui i grandi protagonisti sono più nudi che mai. 

Nessun altro sport al mondo permette di leggere dentro all'anima di chi sta giocando, così a lungo, e così bene. Le grandi partite di tennis durano tre, quattro, cinque ore. Centinaia di minuti in cui il giocatore è solo, contro un avversario lontano fisicamente e mentalmente, a ripetere gli stessi gesti, a studiare i piccoli errori, a cercare di distruggere i punti deboli. 

Era questa solitudine, ciò che faceva infuriare John McEnroe, il mancino più famoso della storia del tennis, geniale (da lì il soprannome The Genius) ma anche incontenibile, insopportabile. Che sembrava avercela sempre con qualcuno, partendo da se stesso: "Mi chiedono perché mi arrabbio tanto: la solitudine del campo è una delle ragioni principali. Sono solo, allo sbando e lotto fino alla morte davanti a spettatori che mangiano panini al formaggio, controllano l'orologio e chiacchierano sull'andamento della Borsa con l'amico seduto accanto". 

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È la condanna degli irrequieti, di chi ci mette sempre l'anima, di chi non si risparmia mai. E John McEnroe - nato il 16 febbraio 1959 - sul campo ogni volta viveva una vita intera, dall'inizio alla fine. Per tutti era un passatempo vederlo giocare come un dio e poi guardarlo frantumarsi come un oggetto piccolo e fragile, colpa semplicemente del suo caratteraccio mezzo americano mezzo irlandese, il prototipo di genio e sregolatezza, diceva la gente.

Ma c'era di più, c'è sempre stato di più. I capelli cotonati, con la fascetta sottile a tenerli lontani degli occhi, la racchetta in legno, una Dunlop che teneva con la sinistra e che sembrava così leggera nei colpi a rete, il suo punto forte. 

John McEnroe era il tennis. E lo è ancora. La rivalità con Björn Borg, il suo opposto in tutto, la finale di Wimbledon persa nel 1980, la vittoria agli US Open poche settimane dopo. Fire and Ice li chiamavano, e non è difficile immaginare quale dei due fosse il fuoco. 

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Centocinquantacinque tornei vinti in carriera, più di qualsiasi altro tennista professionista, spettacolo per gli occhi nel gioco singolo, ma ancora più straordinario nel doppio. 

Peter Fleming, suo storico compagno di squadra, riuscì a descriverlo in poche parole, andando più a fondo nella storia di McEnroe rispetto a quanto fatto successivamente da libri e film dedicati alla sua vita: "La miglior coppia possibile al mondo in doppio è quella composta da John e... un altro tennista qualsiasi!". 

Grande modestia di Fleming che era il suo compagno in campo, ma anche una definizione che va oltre il tennis, perché McEnroe era un catalizzatore, era lui che dava spettacolo, era guardarlo soffrire e sputare se stesso che rendeva il gioco autentico.

Oltre la tecnica del suo mancino perfetto, oltre i colpi da maestro, oltre alla coesione del suo talento e di quello di Borg, completamente l'opposto nell'approccio e nella concezione del gioco. 

Oltre a tutto e tutti, John McEnroe si uccideva ogni volta, a ogni Slam, ed è per questo che nessuno sembra riuscire a prendere il suo posto ancora oggi. 

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Un po' come nel calcio, un po' come nel motorsport, un po' come nella politica e come nella televisione. Quando hai vissuto un'epoca d'oro è impossibile guardare il presente con gli stessi occhi.

Io Ayrton Senna non l'ho visto mai. Sono nata troppo tardi: tre anni dopo la sua morta. E anche se con il tempo ho recuperato la mia lacuna da appassionata, studiandolo, guardando la perfezione della sua danza sotto la pioggia a Montecarlo; anche se ho fatto di tutto per recuperare, io comunque Ayrton Senna non l'ho visto mai. E mai potrò sapere che cos'è stato per la Formula 1, che cosa ha rappresentato la sua morte per gli appassionati, come ha segnato un cambiamento epocale. 

Ed è lo stesso per John McEnroe. Se non l'hai visto giocare, se negli anni '80 non l'hai guardato puntare gli avversari a rete, come un cacciatore, allora non sai che cos'è stato per la storia del tennis. 

Ma sai che qualcosa di grande lo ha fatto, così grande da immobilizzare per sempre l'immagine di uno sport famoso e popolare come il tennis, bloccandolo eternamente a quel punto con un semplice "quando giocava McEnroe era tutta un'altra cosa". 

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