Ciao, sai cosa vuol dire ciao? La risposta alla domanda della nota canzone di Vasco Rossi per noi nati negli anni '80 può essere una sola: “Ciao vuol dire Italia '90”. Le notti magiche di Gianna Nannini, gli stadi costruiti in quattro e quattro otto, Azeglio Vicini condottiero, Roby Baggio sempre più immenso, Vialli gregario, gli occhi impallinati di Schillaci e un’estate caratterizzata dalla mascotte che più di altre ha segnato la storia dei Mondiali di Calcio. Si chiamava, e si chiama, “Ciao”. Sono passati trent’anni dalla prima partita di quei Mondiali, ma anche dal primo contatto con tre grandi insegnamenti.
I calciatori rimorchiano a bestia
Nella mia città, proprio in vista della manifestazione sportiva, venne a fare il ritiro l’Argentina. Ve lo immaginate che significava per un ragazzino di nove anni l’idea di avere Diego Armando Maradona per vicino di casa? Oh, Maradona che si cambiava e si allenava sullo stesso impianto dove andavi a scuola calcio! Ecco, anche io l’ho solo immaginato. Per mesi, settimane, in una marcia di avvicinamento che sembrava interminabile. Fino al giorno in cui il bus dell’Argentina arrivò sotto l’hotel della cittadina di provincia. Stavamo tutti lì. Scesero tutti, uno a uno, fino a quando l’autista chiuse i portelloni e andò via. E Maradona non era sceso. Perché non c’era. E non ci sarebbe neanche stato, visto che a lui era stato concesso di aggregarsi alla squadra solo dopo il ritiro. Una delusione che se ci penso ancora mi metto a piangere. L’attenzione finì inevitabilmente per spostarsi verso tutti gli altri, che erano sì fior fior di campioni, ma mica erano come Maradona. Eppure la fregna che è passata in quell’hotel in quei giorni è stata più di quanta una ragazzino ne avesse vista in tutti i suoi nove anni di vita. Lo capiva, appunto, pure un ragazzino: i calciatori rimorchiano a bestia e la scuola calcio avrebbe potuto servirmi.
Quell’Argentina arrivò a un passo dal vincere, battuta in finale dalla Germania, e prima buttò fuori anche la nostra Italia. Di insegnamento ce ne sarebbe un terzo, ma s’è preferito vivere facendo finta di non averlo tratto: la prima volta è sempre un disastro (l’Argentina fu battuta dal Camerun proprio nella partita di esordio) ma poi la fregna finisce per farti arrivare secondo. È tanto, ma non basta.
Persino nell'Inter può capitarne uno da ammirare
Quando hai nove anni, tifi per una Juve che non vince più e il tuo idolo è Attilio Lombardo (lo so, non sono mai stato normale) se c’è un uomo che deve incarnare il tuo odio è Nicola Berti. Invece mi piaceva da morire, così sgraziato, generoso, con lo sguardo da matto. Ecco, Nicola Berti è stato il primo “virgola ma” della mia vita: “mi piace, ma è dell’Inter”. E con Italia '90 ho per la prima volta messo in discussione quel credo tipico dei bambini secondo cui le cose non devono piacerti se appartengono a qualcosa che non ti piace. Nicola Berti mi faceva impazzire anche se era dell’Inter, e fanculo il “ma”. Poi ce ne sono stati tanti nella vita di Nicola Berti e, anzi, ogni volta che ho giudicato per appartenenza ho cercato di ricordarmi di Nicola Berti. Insomma, il calcio c’entra, ma neanche tanto. Si può essere azzurri, neri e, addirittura, nerazzurri, ma uno da ammirare puoi trovarlo persino nell’Inter. Al punto da dispiacerti come un cane quando fa goal e glielo annullano, come successe proprio a Berti nella finale per il terzo posto contro l’Inghilterra. Se lo meritava quel goal, porcocane, in un Mondiale che tutti ricorderanno per le magie di Roby Baggio, per i goal di Schillaci e non certo per Berti. Un Mondiale che, è comunque bene ricordarlo, finì per l’Italia con diverse papere di Zenga e il rigore fallito da Serena (entrambi dell’Inter, sia chiaro).
Non si piange per il pallone ...figuriamoci per le cazzate
Quando l’Argentina ci ha buttati fuori mi veniva da piangere. Ma non diedi a vederlo. Il giorno dopo, però, ascoltai la conversazione di alcuni ragazzi più grandi. Dicevano (e magari quello è proprio il seme del complottismo italico prepotentemente esploso negli ultimi anni) che l’Argentina aveva vinto grazie ad un dispositivo che i giocatori tenevano nei pantaloncini e che aveva il potere di imbambolare gli avversari. Una roba che non ci credi nemmeno se hai dieci anni. Ma io ne avevo nove. E quella spiegazione sembrava plausibile. Tanto da giustificare l’esplosione delle lacrime trattenute la sera prima. Perdere ci può anche stare, ma se perdi perché t’hanno fregato piangi. E piangi pure di rabbia. Il problema è che non serve a niente e le lacrime, inoltre, sono roba preziosa. Non si possono versare per faccende di poco peso. Me lo spiegò quel giorno mio padre, quando nel pieno della crisi di disperazione e nel bel mezzo del mio pianto isterico, se ne uscì con una frase che suonava più o meno così: “Adesso te le do, almeno piangi per un motivo. E te le meriti pure, perché se credi alla cazzata del dispositivo che ipnotizza gli avversari sei da prendere a schiaffi. Se invece piangi per l’Italia che ha perso sei da prendere a schiaffi lo stesso. Non si piange per il pallone, figuriamoci per le cazzate”. Bastò la minaccia.