Caro Diego,
quanti ragazzi un po’ più grandi di me si chiamano Diego, a Napoli. E, infatti, la rubrica del mio telefono è ancora piena di un sacco di “Diego parco”, “Diego mare”, “Diego campeggio”, “Diego amico di Ale”... Sono cresciuta col tuo nome, attorno a me, nei discorsi sul calcio, nei paragoni, nei modi di dire. Una presenza costante, quasi un familiare. Pensa, Diego, che io, quando in generale voglio dire che uno è formidabile nel fare qualcosa, dico “uà ma chi si? Maradona??”, come perfetto paragone che rende l’idea di insuperabile. Uso il tuo nome pure per far tornare le persone coi piedi per terra: “non sei Maradona, non ti credere Maradona”, come a intendere non sei Dio, e quasi mai lo dico in contesti calcistici. Perché Maradona è antropologia dei simboli, è antropologia culturale, è parte assoluta dell’immaginario collettivo, fa parte del mio vocabolario, fa parte di me.
E lo sai qual è la cosa divertente?
Che quando tu hai vinto col Napoli, fino al secondo scudetto io non ero neanche nata, non c’ero, non ho respirato quell’aria, non ti ho mai visto dal vivo, hai finito di giocare che io ero una bambina che non si interessava ancora al calcio. Ero troppo piccola, ma Maradona già lo conoscevo, senza che qualcuno mi avesse insegnato nulla su di te. È così perché è, e non può non essere.
Durante le giornate di festa, tipo Natale o Pasqua, quando la famiglia si riunisce, non so quante volte ho visto i tuoi goal, o intere partite, trasmesse (non so se lo facciano ancora) dai canali regionali e dalle reti locali di Napoli. E tutti gli zii felici, che gridano e si entusiasmano come se una partita di 20 o più anni prima fosse in diretta. Tutti sanno tutto, dai risultati a ogni singolo episodio, ma ogni goal è felicità pura che ancora oggi non si può trattenere.
Forse è per questo che mi sembra di aver perso uno di famiglia.
E quante volte Diego ho visto i video delle tue azioni, su YouTube. Li ho consumati e mio padre non so quante volte avrà detto che ai mondiali di Italia 90, quando hanno giocato a Napoli, il pubblico tifava per te.
Per questo credo che chi è di Napoli abbia perso un pezzo della propria cultura, della propria identità, della propria “religione”. La tua scomparsa ci tocca in maniera diversa, ci tocca di più, e se non sei napoletano non puoi capire. Per noi è più doloroso e tu, Diego, lo sai, perché noi napoletani esasperiamo tutto, fino al parossismo: la felicità, la gioia, la generosità, l’umanità, gli sbagli, la rabbia, la confusione, l’egocentrismo, l’onnipotenza.
Durante gli anni dell’università, quando facevo pure teatro, ero sempre a piedi o in pullman, tra via Duomo, i quattro palazzi, Spaccanapoli, Forcella e i Quartieri Spagnoli. È in quei vicarielli che ogni tanto vedi ergersi dei veri propri templi di culto: piccoli angoli dedicati al dio Maradona, piccole statuette, o semplicemente foto, messe lì, magari illuminate da un lumino, come si fa coi santi o coi morti. Assieme a qualche sciarpa del Napoli, stanno lì, da tempo immemore. Tutto ha un’atmosfera molto profana, ma con accenni sacri, proprio come siamo fatti noi, Diego, un po’ Antigone e un po’ Caronte, un po’ superbi un po’ attaccati alla natura, pronti a difenderla, un po’ così: pazzi, squilibrati, devoti, credenti di un credo confuso, ma pieni di forza indomita e di talento - che quello è un dono divino, ma va coltivato e accarezzato, e solo che tu ti sei potuto pure permettere di prenderlo a calci, diventando lo stesso il più grande.
Gli altri non saranno Maradona ma tu lo sei d’altronde.
Non ti ho conosciuto ma vivi dentro di me, anche ora che hai lasciato questa terra, vivrai comunque dentro di me.
Hai investito il tuo tempo così bene che il tuo ricordo attraverserà il tempo senza usura, e questa è la tua vera vittoria. La tua morte come un goal, un’altra vittoria conquistata da solo, che stavolta noi non urliamo di gioia ma non abbiamo neppure parole per il dolore.
Nascere napoletana è la cosa più bella che mi sia potuta capitare, oltre a quella di essere nata donna. Nel Superclásico io tifo Boca e, anche io, come te, rappresento il popolo. Anche io voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri, perché sono quello che ero io alla loro età, e sono convinta che il mio esempio potrà convincerli, finalmente, che tutto è possibile, che non bisogna mai smettere di sognare, anche e soprattutto in quei luoghi in cui ogni speranza sembra dover essere spenta, fin dalla nascita.
Grazie per aver reso il calcio più bello.
Grazie per aver dato forma a una parte della nostra tradizione.
Grazie per esserti mostrato nella più totale disinvoltura e spontaneità, perché è così che ci hai fatto capire che pure i geni sono soltanto uomini.
Grazie per averci fatto schiattare dalle risate nelle interviste in cui non riuscivi a mettere in fila due parole in croce perché stavi troppo fatto.
Grazie per averci mostrato l’arte. Perché non c’è bisogno di capirne di calcio, per comprendere la tua grandezza. L’arte è arte ed è evidente a tutti.
Grazie perché, attraverso di te, ho capito che genialità è fare una cosa complicatissima ma farla sembrare facile, lo stesso principio che cerco di applicare alla mia arte.
A te Diego, artista, uomo, calciatore e napoletano, dico grazie anche per essere passato dalla mia Napoli e per aver condiviso gli umori colorati dell’unica città e dell’unico popolo al mondo che ti amerà per sempre.
Decidi tu dove andare ora.
Tu puoi, tu si’ Maradona.
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