Ufficialmente la Wada è, come si legge in rete, “l'Agenzia mondiale antidoping, World Anti-Doping Agency: una fondazione a partecipazione mista pubblico-privata, creata per volontà del Comitato Olimpico Internazionale, il 10 novembre 1999 a Losanna, per coordinare la lotta contro il doping nello sport”. Ultimamente, però, sembra che la WADA – almeno per come è percepita in molte discipline sportive in seguito ad alcune vicende non proprio limpidissime – si sia trasformato nel classico carrozzone divenuto centro di poteri, in grado di condizionare anche al di fuori della reale e sacrosanta lotta al doping, la vita politica dello sport in genere. Un organo che, sempre secondo molti addetti ai lavori, è letteralmente senza orecchie.
Perché non ascolta nessuno. Anche quando quel qualcuno potrebbe aver ragione e, al limite, meritare di esporre le proprie ragioni. Ne sa qualcosa, purtroppo, il marciatore italiano Alex Schwazer, al centro proprio in questi giorni di un nuovo processo per accertare la verità sul caso di doping che lo ha riguardato e che gli ha impedito di partecipare alle Olimpiadi nel 2016. Schwazer, lo ricordiamo, era stato squalificato già in passato dopo aver fatto uso di sostanze dopanti ed aver anche ammesso le sue colpe. Aveva pagato, giustamente, una durissima pena e poi, solo con le sue forze, mettendo mano ai risparmi di una vita, aveva tentato la redenzione: sportiva e non solo umana. Fino a meritare l’accesso, ad una età in cui gli altri marciatori hanno già appeso le scarpe al chiodo, alla manifestazione olimpica. Ma quel ritorno non era piaciuto e non era visto di buon occhio da molti, con l’italiano che, tra l’altro, poteva contare anche su riscontri concreti circa la sua competitività. Un campione di urine, però, risultò contaminato da una sostanza considerata dopante: nuova squalifica e inizio di una battaglia legale che ancora oggi si trascina. Perché su quel campione, come è stato riconosciuto anche dal perito del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bolzano, nell'udienza che si è tenuta l'altro ieri, c’è stata una manomissione. E la teoria di Schwazer e del suo allenatore sembra non apparire più così assurda. In tutto questo, però, la WADA non ascolta ragioni: determinata a punire al di là di ogni ormai necessaria cautela.
Un approccio di chiusura assoluta che nel motorsport è toccato, e sta toccando, anche ad Andrea Iannone. Il pilota di Vasto è stato squalificato per diciotto mesi, con una sentenza che ha dell’assurdo. In cui si dice, sostanzialmente, che la sostanza dopante (costata probabilmente la carriera ad Andrea) era contenuta in un piatto a base di carne consumato in un ristorante. E si riconosce, quindi, che il pilota non poteva sapere, con la sentenza che, nero su bianco, attesta la non volontarietà e quindi l’assenza di colpe del pilota. Che però, per il solo fatto di essere risultato positivo è stato comunque punito. Bastava? Avrebbe dovuto! Perché quando i legali del portacolori Aprilia hanno presentato ricorso in appello, la WADA si è messa di traverso, facendo slittare a lungo l’udienza fino ad arrivare a richiedere una condanna ancora più severa: quattro anni. Un atteggiamento inspiegabile se non in chiave politica, visto che comunque è stato accertato anche che la sostanza assunta da Iannone non avrebbe influito minimamente sulla performance sportiva di un pilota di moto da corsa.