Da questa parte dell’oceano Dale Earnhardt è quasi uno sconosciuto. Anche per chi il motorsport lo ama, lo segue con passione e lo conosce, il nome di questo sette volte campione del mondo è un poco più che un eco lontano.
Solo un viso forse, per qualcuno di voi: gli occhiali anni 80, i baffi da profonda America.
Non importa che per i motori a stelle e strisce Dale Earnhardt sia stato, e sia tutt’ora, un vero e proprio mito: il più vincente corridore NASCAR della storia assieme a Richard Petty e Jimmie Johnson, il pilota con il maggior numero di successi nel circuito di Daytona, ben 34, e il vincitore di ben 76 gare nelle varie Winston Cup della sua carriera.
Non importa perché di qui, da questa parte del mondo, la NASCAR è troppo lontana, troppo diversa. Per qualcuno però, qualcuno che ha poi preso la strada delle monoposto arrivando fino in Formula 1, Dale Earnhardt ha significato tutto.
Quel qualcuno è Daniel Ricciardo che proprio al COTA, in occasione del Gran Premio di Austin, ha avuto la possibilità di guidare la Chevrolet Monte Carlo del 1984 del suo mito, oggi di proprietà del team principal della McLaren Zak Brown.
Tra Zak e Daniel c’era un patto, una scommessa ideata a inizio stagione: "portaci un podio - aveva detto il boss McLaren all’australiano - e potrai guidarla in pista". E così è stato. Dopo un inizio di mondiale difficile Daniel Ricciardo non ha solo fatto podio, ma ha vinto. Ha riportato la McLaren sul gradino più alto della Formula 1 con un’impresa, a Monza, che tutti gli appassionati faticheranno a dimenticare.
Zak Brown ha scontato la sua parte di scommessa facendosi tatuare sul braccio, proprio nel weekend di Austin, un disegno scelto dal suo pilota australiano. A Daniel invece è toccato il premio promesso: sfrecciare ad Austin sulla macchina dei suoi sogni di bambino.
“Ricordo vividamente quando Dale morì, a Daytona nel 2001 - ha raccontato Ricciardo - La mia reazione alla notizia sono state le lacrime. Ho chiamato il mio amico Stephen in quel momento, abbiamo corso in insieme nei kart ed era anche lui un grande fan di Earnhardt. L’ho chiamato e abbiamo pianto insieme al telefono. Era un eroe, di sicuro".
Un incidente che sembrava banale, quello a Daytona di Earnhardt, non uno degli schianti spettacolari a cui la NASCAR ha abituati i suoi fans. Un giorno che toccò per sempre il Ricciardo di allora: "Era il 2014 quando ho preso il numero tre, avevo anche in mente di immedesimarmi nell’ottica “The Intimidator”. “Ovviamente la mia versione era ‘The Honey Badger’", ha raccontato Ricciardo, ricordando il soprannome di Dale - chiamato dai suoi avversari "l’intimidatore", per il suo stile aggressivo di guida, in netto contrasto con il suo carattere simpatico ed estroverso.
"Pensare a me stesso così - ha aggiunto Daniel - mi dava sicurezza. Quello era l'anno giusto per mostrare il ragazzo che non aveva paura di fare una grande mossa, per correre a muso duro. Non mi sentivo ancora abbastanza. E quel primo anno con la Red Bull è stata la mia occasione per fare davvero quella dichiarazione e per guadagnarmi una forte reputazione. Sicuramente parte di questo cambiamento e di questa forza arriva proprio da Dale, che mi ha ispirato più di chiunque altro".
Un mito, una scommessa, una vittoria - quella di Monza - che sa di redenzione, e un premio da riscuotere in pista che è molto più di questo. E' un cerchio che si chiude, nello strano gioco del motorsport, che poi è la corsa della vita, dove anche quello che perdiamo, in qualche modo torna da noi.