Davide Brivio è un uomo chiave nella vittoria Suzuki. E non lo scriviamo perché è italiano, come se fosse l’ultimo appiglio patriottico nel giorno in cui il Mondiale l’ha vinto uno spagnolo su di una moto giapponese. Lo scriviamo perché è vero. Brivio è uno stratega eccezionale, è quello che i libri di marketing dovrebbero riprendere per insegnare agli imprenditori di provincia cosa sia un manager.
Perché fa scelte che, al mondo, in molti non hanno il coraggio di fare: investe sui giovani (e di talento, certo) e li paga meglio di chiunque altro. Più di quanto abbia mai fatto Ducati con un’esordiente, anche più di quanto facciano Honda e Yamaha. Non mette sotto contratto i giganti, quelli che si sentono già arrivati. Perché Suzuki fino a ieri non era già arrivata, e rendere il pilota parte del progetto invece di confinarlo al ruolo di strumento fa la differenza. Come i mobili di Ikea: dicono che parte del successo del marchio sia dovuto al fatto che te li devi montare da solo, così nel frattempo te ne appassioni come fossero una tua creatura.
Davide Brivio questo l’ha fatto con Joan Mir ed Alex Rins, ma ci era già riuscito con Valentino, portandolo via dalla Honda proponendogli in cambio una Yamaha che non vinceva da 12 anni. Quella volta, a Rossi, Brivio disse una cosa semplice: “Vero, con questa moto il titolo lo hanno vinto in pochi. Ma quei pochi sono Giacomo Agostini, Kenny Roberts, Eddie Lawson e Wayne Rainey, delle leggende del motociclismo.”
Valentino Rossi accettò. Poi tutti sappiamo come è andata, a cominciare da quella vittoria a Welcomm 2004 che il Dottore considera tutt’ora una delle più belle della sua carriera. Brivio rimase con Rossi fino al 2010, quando Valentino passò in Ducati ed il manager brianzolo si impegnò come consulente nella VR46.
L’arrivo in Suzuki come Team Manager avviene nel 2014, quando “non c’era un meccanico, una cassetta per gli attrezzi, niente. Ho cominciato a scrivere una lista di cose che servivano e a guardarmi intorno. A curiosare tra officine e uffici a bordo pista. Puntavo a gente giovane, consapevole di imbarcarsi in una storia di sacrifici e attesa. Avevo le idee chiare sul carattere e le attitudini dei componenti della squadra che volevo: persone ispirate, ambiziose. E tranquille, come me.”
L’approccio è stato graduale, al punto che Suzuki ha passato un anno di test prima di schierarsi a tutti gli effetti in griglia di partenza nel 2015. La moto è bellissima, a guidarla ci sono un giovanissimo Maverick Vinales ed Aleix Espargarò, c’è anche Silvain Guintoli a fare da collaudatore. Nel paddock dicono che sia una sorta di clone della Yamaha, ma con meno motore.
Brivio in merito racconta di una chiacchierata con Masao Furusawa, ex numero uno del marchio dei Tre Diapason nonché mentore del brianzolo: “appena entrato in Suzuki lo andai a trovare, era già in pensione e chiacchierammo sulla mia nuova situazione. Mi disse una frase “Per battere il tuo avversario non devi copiarlo, devi fare qualcosa che lui non fa, inventare, innovare.”
E così è stato. Davide ha portato in MotoGP una mentalità più fresca, vivace. Ma soprattutto, in un ambiente in cui impera il denaro, ha portato fiducia e serenità. Così il box Suzuki è diventato in breve tempo il corrispettivo di una gigantesca azienda nella Silicon Valley: si lavora per il massimo risultato, ma l’atmosfera (battiti cardiaci a parte) è sempre calma e rilassata.
“La doppietta Suzuki è diversa da quelle in Yamaha. - ha raccontato Davide - La rivalità si sentiva molto e le doppiette si festeggiavano insieme solo per fare le foto, dopo ognuno per sé. In Suzuki siamo molto uniti e i due piloti sanno che devono rispettarsi, soprattutto in questi momenti. Non mi piacciono gli ordini di scuderia, abbiamo detto soltanto che non devono fare cose avventate. A Mir dicevamo sempre che doveva solo divertirsi e imparare, non doveva correre con la pressione di dimostrare per forza qualcosa. Lui invece aveva molte aspettative e infatti ora eccolo qui.”
Davide Brivio per i suoi piloti non è il capo, è un ottimo insegnante. Di quelli che, se sei fortunato, puoi avere a scuola da bambino. Perché per seminare fiducia ci vuole un’enorme pazienza ma, se la pianti nel posto giusto, non può che andare a finire bene.
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