Agli occhi di chi non lo tifa, Lewis Hamilton è insopportabile. Gastone Paperone in un mondo di Paperini, coglie vittorie ad ogni piè sospinto, come il suo alter ego papero raccoglie portafogli in quel di Paperopoli. Vince tutto, pure quando le cose sembrano giragli male, e arriva sul podio serafico a ringraziare i fan, che puntualmente sono sempre i migliori dell’universo conosciuto. Peggio ancora, durante la gara, pur sfrecciando come un missile sulla W11, si lamenta costantemente, come i petulanti secchionazzi che si dicono impreparati prima di un esame e poi prendono 30. Si lagna delle gomme, della strategia, di qualsiasi fattore che potrebbe rendergli la vita difficile. Da un lato come tattica nei confronti degli avversari. Dall’altro, probabilmente, perché pure lui, come tanti, nella testa ha una vocina catastrofica, che si prefigura scenari apocalittici.
Se non vince, Lewis mette il broncio, come un bimbo cui è stato rubato un giocattolo. Insolente, fastidioso, ha l’aura mistica di chi non solo vuole vincere in pista, ma pure cambiare il mondo. Ma siamo sicuri che quello di Hamilton sia un caso isolato? I campioni sono tutti antipatici, se non li si tifa. Farebbero qualsiasi cosa per imporsi sugli altri, sempre. Sono capricciosi, spinti da una furia infantile, e per questo fanno saltare i nervi. C’è una scena nella nuova docuseries su Alonso, Fernando, in cui lo spagnolo, nei box della McLaren in Bahrain, assiste alla gara con lo sguardo del bambino messo in castigo, pronto a pestare i piedi perché ingiustamente confinato a fare da spettatore.
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“Io sono molto meglio di quelli là”, avrà pensato Alonso. Che, a dispetto dei suoi 39 anni, vorrebbe vincere altre dieci, cento, mille volte. Così come Hamilton, che sta battendo tutti i record in F1, ma non è mai sazio. I campioni non sono per nulla piacevoli, hanno inevitabilmente atteggiamenti irritanti. Lo stesso Alonso ha più volte sfogato la sua ira funesta sul proprio team via radio: “siete dei geni/scemi” – se ne discusse per settimane – alla Ferrari, “GP2 engine” alla McLaren qualche anno dopo. I veri campioni sono belve pronte ad ingoiarsi la concorrenza, e, quando non sono messi nelle condizioni di farlo, impazziscono, come un leone in gabbia.
E pure i grandi del passato non erano educande, anzi. Vogliamo parlare di Michael Schumacher? Asettico, teutonico fuori dall’abitacolo ai tempi della Ferrari, ma tritacarne in pista, con l’occasionale scorrettezza pure prima che arrivasse alla Rossa. Ne sanno qualcosa Damon Hill e Jacques Villeneuve, un altro che, ancora oggi, è tutto meno che un agnellino. Schumi indomito, Schumi arrabbiato, come quando, a Spa nel 1998, fu contenuto a stento dal povero Stefano Domenicali, perché – comprensibilmente, oseremmo dire – voleva darle di santa ragione a David Coulthard. Ma anche Ayrton Senna, oggi rilucente dell’aura ultraterrena di chi se n’è andato troppo presto, era tanto generoso nella vita privata quanto implacabile, insaziabile, a volte fin troppo spietato in gara.
Schumacher, per chi non tifava la Ferrari ai tempi d’oro dei successi inarrestabili degli anni Duemila, era intollerabile tanto quanto lo è oggi Hamilton agli occhi dei fan della Rossa. Perché se, domenica dopo domenica, suona sempre lo stesso, inesorabile inno e il solito sospetto si presenta sul gradino più alto del podio con aria tronfia, il travaso di bile è inevitabile. E, come nel caso del compagnuccio di corso perfettino, qualsiasi cosa faccia il campionissimo diventa insostenibile. Ringrazia i fan? Che paraculo. Si batte per cause sacrosante? Ok, ma non dovrebbe farlo nei weekend di gara, ché non ci interessa. Osa eguagliare il record dei record? Ma non c’è nemmeno paragone.
Niente di ingiustificato, beninteso. Il tifo è di per sé irrazionale, quindi è normale per un fan avere reazioni di pancia. Avvertire, di fronte a scene indigeste, fastidi mal sopiti, quasi pruriginosi, che finiscono per logorare nel profondo, come una goccia che scava la roccia. Anzi, diremo di più: gli unici che stanno simpatici a tutti, a prescindere dalle fazioni, sono i comprimari. Daniel Ricciardo, Lando Norris, per fare due esempi. Delle sagome, che mettono d’accordo il pubblico. Ma solo perché non vincono. L’occasionale exploit non conta: un outsider che batte l’odiata concorrenza, oltre ad essere una bella storia da raccontare, è pure un balsamo per le ferite di chi vede vincere sempre lo stesso, insopportabile soggetto tutte le cavolo di domeniche.
Ma pure uno come Ricciardo, se vincesse sempre, risulterebbe alla lunga indigesto per chi tifa un’altra squadra. “Cos’avrà sempre da ridere questo”, si chiederebbe chi fino a qualche tempo prima lo lodava per i sorrisi a 32 denti, evidenti pure con la mascherina. “Ma basta, un po’ di serietà. Ancora con lo shoey?”. Ci vuole un attimo per passare da outsider a vera minaccia, dall’essere lodato da tutti all’essere inviso. Dopotutto, però, i comprimari farebbero di tutto per essere disprezzati. Perché vorrebbe dire che si sono presi il palcoscenico, dopo anni di gavetta. E a quel punto, non importa essere criticati. I campioni vivono anche di questo, si nutrono della bile di chi li vorrebbe veder fallire. E loro invece vincono una, dieci, cento volte ancora. Alla faccia di chi non li tollera.