Quando se ne va uno come Gianni Di Marzio, si chiude l’ennesima porta su un’epoca. Raggiunge Diego Armando Maradona dopo poco più di un anno, lui che l’aveva scoperto per primo e che solo per colpa delle frontiere chiuse per gli stranieri in Italia – no, non c’era ancora Salvini, ma solo una Corea del Nord che nel 1966 ci umiliò e ci fece decidere di evitare oriundi in nazionale e calciatori di altre nazionalità in seria A – non si concretizzò in un affare per il Napoli, la squadra che era nel cuore di quest’uomo gentile, pieno di aneddoti, divertente. E un po’ burbero, come lo è chi è troppo puro e sa che deve fare il duro in un ambiente in cui i suoi valori, le sue scelte, le sue visioni, le sue regole non valgono.
Gianni Di Marzio era uno che per la parola data a un neanche ventenne intervenne in una radio privata romana che parlava della squadra partenopea dando buca a Mediaset, era uno che non ha mai detto ciò che conveniva ma ciò che pensava, era così competente di calcio e rigoroso che probabilmente quel talento lo ha passato nel DNA al figlio Gianluca, il re del calciomercato, enciclopedico e tentacolare rabdomante di ogni acquisto, cessione, prestito, trattativa. Scherzando con qualche collega li consideriamo da sempre il Piero e Alberto Angela del pallone.
L’epoca che se ne va con Di Marzio è quella degli allenatori padri padroni di uno spogliatoio (le rimpatriate del suo mitico Catanzaro sono state fermate solo dal Covid, dopo quasi 50 anni), competenti e appassionati, capaci di tener testa a tutto e tutti senza perdere la propria identità e senza accettare compromessi, di chi ama il calcio e i calciatori e li (ri)conosce tutti, sempre. Da Maradona, di cui divenne amico (le loro foto insieme sono meravigliose), a Cristiano Ronaldo, che segnalò alla Juventus – per cui fu responsabile dell’area esteri dal 2001 fino allo scandalo calciopoli - quando giocava nello Sporting Lisbona. Fino a portarlo a Torino per le visite mediche. Ma Gianni Di Marzio era speciale perché alle qualità appena descritte aggiungeva una modernità tutta anni ’70 (i suoi anni d’oro, anche se negli ’80 porterà il Catania in serie A e firmerà una mitica salvezza a Cosenza), fatta di diete personalizzate, supporto psicologico a calciatori e studio delle dinamiche di mercato che lo faranno anche essere un ds di ottimo livello (a Cosenza, dove cominciò e poi con Zamparini a Venezia e Palermo). E poi è il padre del maggior esperto in merito. Era un concentrato, il buon Gianni, di calcio all’antica, delle regole inossidabili del calcio classico e uno sguardo al futuro dello stesso, deciso e fiducioso. Per dire, è uno che nelle giovanili scartò Bruscolotti, il mitico Palo ‘e Fierro e capitano storico azzurro, perché troppo grosso. In quel caso sbagliò. Decennio, perché sarebbero stati gli anni, di lì a breve, di difensori agili, scattanti, d’inserimento.
Era, tra le altre cose, un comunicatore nato: iniziò a scrivere per l’Unità in piena attività, nel 1978, poi a Telemontecarlo fece l’opinionista. A Napoli, dopo l’esonero, Ferlaino dovette pagarlo fino a fine contratto per garantirsi una clausola di riservatezza, a memoria mai attivata prima in serie A. Parlava, tanto, Gianni, e mai a sproposito. Siti, radio, tv: tutti lo chiamavano e rispondeva sempre. E come da allenatore, non amava lo 0-0. Sparava bordate, mai con cattiveria e sempre con intelligenza, conoscenza di fatti, persone e situazioni. Raramente sbagliava giudizi o previsioni, regolarmente individuava criticità tattiche e societarie in poche parole. Motivo per cui, forse, in quel Napoli in cui non riuscì a giocare (la sua carriera da mediano finì prematuramente per un infortunio) ma che riuscì ad allenare (un quinto posto e una finale di Coppa Italia persa contro l’Inter, quando era un trofeo serio, oltre ad aver lasciato a Vinicio le basi per il Napoli più bello di sempre), poi non trovò un posto da dirigente che avrebbe fatto un gran bene sia alla società che a lui. Ma non era diplomatico Gianni e per questo era amato e rispettato anche dai giocatori che faceva giocare meno. Era un giusto, che non sapeva né voleva essere furbo. Tranne che sul campo, dove per sollevare Chinaglia, sì proprio Long John (all’Internapoli, di cui era il secondo e poi prese il posto, guarda un po’ il destino, di Vinicio), da contestazioni e fischi, fece indossare la sua maglia XL allo smilzo Orsi. Doppietta per il primo, insulti per il secondo.
Un passionale che non a caso, escluse due parentesi a Padova e Genova (sponda rossoblu, quindi una città del Sud in incognito), ha sempre allenato e avuto successo al Sud, e con il Catanzaro che portò in serie A per la seconda volta nella sua storia – la sua impresa più clamorosa -, il Napoli e il Catania pose, in conferenze stampa e interviste, il problema della questione meridionale. Anche ma non solo calcistica.
Era dolce Gianni, come gli emoticon con cui ti rispondeva (non aveva mai smesso di amare e dominare il futuro, quel babbo natale con i cuori al posto degli occhi dove mai lo avevi scovato, mister?), ma guai a darlo a vedere. In questi tempi in cui il conflitto fa paura e i ragazzi non lo conoscono, sembrava burbero: semplicemente, diceva le cose come stavano. Ma l’empatia che provava, creava, emanava era unica.
E chiunque ci abbia anche solo preso un caffè sentirà una nostalgia lacerante per quegli aneddoti infiniti, ricordati con lucidità disarmante, sciorinati con uno storytelling da mattatore consumato. Se Gianni raccontava, a te sembrava di viverlo, vederlo, sentirlo addosso quel momento che aveva deciso di condividere.
Mancherà tanto Gianni Di Marzio a questo calcio che non gli assomigliava più. Perché era la memoria e la voglia di futuro, la visione e il pragmatismo, l’occhio e la voce affilati, ma la bocca dal sorriso delicato. E in tutti lasciava qualcosa di indelebile. Come ha raccontato Claudio Ranieri, che lo ha definito il suo maestro e che da lui venne segnalato per l’esordio in panchina a Lamezia. Il calcio moderno gli deve tanto, un piccolo pezzo del miracolo Leicester compreso. Non è stato abbastanza ricambiato il mister, nonostante le 600 panchine in carriera. Il problema è che lui era così avanti da arrivare prima. Come con Diego, scoperto 7 anni prima del suo approdo in azzurro (lui lo avrebbe comprato a 300 milioni di lire, Ferlaino ne sborsò 13, ma di miliardi).