Se scrivi per MOW può capitarti di finire ad una serata a Cortina organizzata da Genius People Magazine. Si parla di Dakar, dei suoi eroi e di design. Tra gli invitati c’è Gigi Soldano, seduto in fondo al tavolo. Quando parla lascia intendere che vive per le corse, per le storie che vale la pena raccontare: dice che cerca l’anima dei piloti e delle persone che fotografa. Nella selezione di foto dell’edizione 2022, proiettata da un gigantesco televisore Bang & Olufsen accompagnata da una cover di House of the Rising Sun, ci ha messo delle incisioni rupestri trovate per caso durante un appostamento. Conserva un’espressione torva alla Marco Giallini, come se stessi cercando di rifilargli un nuovo abbonamento telefonico o un’assicurazione sul cane. Prima della conferenza gli chiediamo della Dakar, di com’è correrla in Arabia Saudita, lui risponde che ha passato più di una notte in macchina: “C’era troppo vento per dormire in tenda, e poi nel bivacco non sei davvero nel deserto. Prendevo l’auto e me ne andavo un po’ più in là a dormire. Alla fine dei colleghi francesi sono venuti a bussare all’auto chiedendo un posto”. Mentre parla guardiamo le sue mani: sta parlando con Edi Orioli e Franco Picco ma il pilota che ha corso l’ennesima Dakar sembra lui. In Arabia Saudita Gigi Soldano ha portato due Nikon nuove, ma evidentemente per scattare quattordicimila foto nel deserto anche le mani ti chiedono un pegno. Dopo l’evento ci accordiamo per un’intervista, che accetta soprattutto perché “La musica è troppo alta e la stanza troppo piccola, per parlarsi bisogna urlare”. Ha ragione, così ci sediamo su di una panca di fronte alla reception dell’hotel per scambiare due parole.
A quante Dakar hai partecipato?
“Questa era la ventiseiesima”
La più bella?
“Ogni gara ha una sua storia. Se le metti a confronto torni ai tempi passati, all’Africa e a quelle sensazioni che oggi non vivi più per tutta una serie di motivi, anche per via dei personaggi”.
Per esempio?
“Sono cambiati i posti, le opportunità. Vorrei vivere oggi, con la mia esperienza, quelle sensazioni che ho percepito negli anni Ottanta e Novanta. Sarebbe bello tornare indietro. Adesso la Dakar è un business: pubblicità, marketing… Tutto quello che c’è attorno. Ti ritrovi in mezzo a un villaggio di 3.500 persone che si sposta ogni giorno, non c’è più il rapporto con le persone. Sono riuscito ad incontrare degli amici soltanto l’ultimo giorno perché prima non fai nemmeno in tempo, non è il massimo. I posti restano sempre interessanti ma li devi comunque cercare”.
Sei un’icona della Dakar, ma anche del motomondiale. In questi anni come è cambiato il paddock della MotoGP?
“È cresciuto, e lo ha fatto anche seguendo l’esempio della Formula 1 che ha dettato più regole e logiche comportamentali. È migliorato tantissimo nella sicurezza ed è leggermente peggiorato nel rapporto con le persone. Adesso hai tante opportunità dettate dai team che ti offrono la possibilità di stare assieme ai piloti, ma è tutto più formale e meno improvvisato, meno spontaneo. Prima conoscevi il pilota, si creavano dei rapporti più autentici. Adesso invece è tutto molto impersonale, di facciata”.
Come ti ha cambiato il motomondiale?
“Il motomondiale è una bella scuola di vita soprattutto quando diventa qualcosa come il settanta percento del tuo lavoro. Io sono cambiato nei rapporti con gli altri ma anche nel lavoro di gruppo, perché adesso cerchiamo di avere un’immagine completa di tutto il mondo delle corse. Lavorando in parallelo con altri fotografi esce un servizio molto più professionale, anche se per certi aspetti meno interessante. La gente è abituata a tutto e subito e vuole immagini televisive, rivedere esattamente quello che è successo nelle foto. Ma non è così facile, quindi devi essere un po’ ovunque e coprire al meglio una situazione che da solo sarebbe troppo difficile da gestire”.
Dopo tanti anni saprai già dove passano i piloti e dove invece è facile che si stendano.
“Ma non è tanto l’istante, è più il dare un senso a quello che riprendi. Devi produrre un’immagine che ti faccia capire dove sei, la foto del pilota in piega sul cordolo la vedi ovunque. Il tuo sforzo deve essere quello di contemplare la situazione e immedesimare il lettore in quel momento… E non è facile, perché devi mettere d’accordo tutti: lo sponsor vorrebbe mostrare la carena coi suoi adesivi, mentre il lettore si fa prendere dalla fantasia”.
Un grande designer ha detto che, anche se riesci a fare il lavoro dei tuoi sogni, ti ritrovi a farlo davvero per il 10% del tempo, il resto sono seccature. Sei d’accordo?
“Certo. Ma è un ottimista, io direi anche meno del dieci percento. Faccio l’esempio della Dakar: ero partito con determinati propositi e sono riuscito a realizzarli in una piccolissima parte e soltanto negli ultimi due giorni. Non è così facile e c’è tanta fatica. Stamattina ero a Palermo, ora sono qui a Cortina”.
Il tuo dieci percento cos’è?
“Il pilota. L’aspetto umano, riuscire ad entrare un po’ nell’anima dei personaggi, del contesto. Per me è tutto nel riuscire a entrare in confidenza con loro, soltanto così riesci ad ottenere un certo tipo di risultato”.
Hai detto che le moto per te sono un po’ come animali. Coi piloti è lo stesso?
“Assolutamente. E se un pilota non ti guarda negli occhi quella foto è da buttare. Ma il soggetto deve essere sensibilizzato in questo, deve riconoscerti nel mucchio. Se ha venti fotografi intorno ma guarda te hai fatto quello che volevi. Ma non è facile costruire questa cosa”.
Con Valentino ci sei riuscito.
“Io ho avuto una grande fortuna a lavorare con lui, ma è sbagliato identificarmi come il fotografo di Valentino Rossi. Ce ne sono tanti altri, con lui ho avuto un’ opportunità per una serie di motivi legati anche al team in cui si è ritrovato”.
Umanamente cosa ti ha lasciato il suo ritiro?
“Ci sta, va benissimo. Non ho nessun rimpianto, posso dire di aver vissuto tutta la sua epoca da motociclista e per me è una grossa soddisfazione. L’ho visto crescere, modificarsi”.
Ti vengono a cercare i piloti? Vengono a dirti ‘Gigi, guardami l’anima’?
“Non è proprio così, il pilota è un animale strano. Però ti riconosce e quello è un vantaggio. Magari se ci sono io o un altro che lavora con me danno più confidenza, sono tranquilli, sanno che quella cosa noiosa che devono fare per forza se la sbrigheranno in fretta. Perché siamo consapevoli del fatto che sta facendo una cosa rognosa”.
Quali sono i piloti che ti piace di più fotografare oggi?
“Qualche pilotino della Moto3, sono più spontanei, si atteggiano meno”.
Il 6 marzo sarai in Qatar. Fare le foto in notturna è più bello o solo più faticoso?
“Se si corresse di giorno sarebbe un po’ più drammatico, perché quel circuito è nullo. Invece di notte ha il suo fascino. Poi però ti ritrovi a lavorare al freddo, al vento… Non è neanche gradevole, però sai che stai facendo qualcosa di diverso rispetto a tutto il resto della stagione”.
Chi lo vince il mondiale?
“Un anonimo, un non previsto”.
Non punti su Pecco Bagnaia, o magari su Marc Marquez?
“Oggi non è il più sicuro”.
Hai un rapporto con lui, con Marquez?
“Si, ho lavorato per degli anni con loro, con la Honda intendo. Poi ho smesso per una serie di motivi, anche etici. Abbiamo fatto delle scelte”.