La Dakar ti strega anche se tutti dicono che è cambiata. C’è gente che pur di correrla risparmia, rinuncia al resto, si sacrifica. Niente di sbagliato in tutto questo. Franco Picco, a modo suo, è l’esatto contrario: lui la Dakar la corre a 66 anni perché fa ancora il mestiere del pilota. Che vuol dire salire sulla moto e portarla al traguardo, raccontare cosa succede dalla telecamera del suo smartphone, caricare tutto online alla svelta. È il suo lavoro e non è stato lui ad averlo scelto, gliel’hanno chiesto per favore. Picco aveva un’officina, vendeva e aggiustava moto da fuoristrada fuori Vicenza. Tornare nel deserto gli ha cambiato la vita come è successo a Giorgio Moroder quando i Daft Punk l’hanno messo nel loro ultimo disco. Moroder è andato in tour a settant’anni passati, Picco è alla Dakar con i più forti del mondo. E gira tra eventi e fiere, sviluppando una Fantic per il fuoristrada dall’Arabia Saudita al giardino di casa. Lo abbiamo incontrato a Cortina per Off-Road, Dakar e Design, un evento messo in piedi da Genius People Magazine. Franco è arrivato con un furgone, dentro un Fantic Caballero 500 Rally da esposizione di cui Giampietro Ghedina, Sindaco di Cortina d’Ampezzo, si è innamorato immediatamente. Picco ha parlato, in un incontro tra motori e design, di cosa significhi correre da pilota ufficiale a sessantasei anni una delle gare più estreme di sempre. Franco si è fatto capire da tutti. Poi però la moto doveva tornare nel furgone, la chiave non gliel’avevano data per paura che potesse andarci in giro senza immatricolazione. Così l’abbiamo spinta assieme per una lunga salita fino al furgone e lui ha ricambiato con un’intervista.
Dakar numero?
“La mia è la numero ventotto, in totale era la numero quartantaquattro”.
Cosa è cambiato di più rispetto all’anno scorso?
“Ho avuto la fortuna che Fantic mi ha chiesto di sviluppare una nuova moto. Avevo la moto nuova, un meccanico e il camioncino per dormire. L’anno scorso ero partito con la moto vecchia, senza assistenza e dormendo in tenda. Per dire tre cose alla svelta”.
L’anno scorso avevi già cominciato a seguire i social.
“Si, anche l’anno prima quando ho rotto il motore all’Africa Eco Race. Non sapevo che fare e il mio amico Massimo Tamburelli, che mi fa anche da addetto stampa, mi ha consigliato di usare il telefono. È stato un successo, tanto che ultimamente non guardano neanche più la classifica, ma quanti mi piace ci sono - Picco si mette a ridere - li ho visti quelli che fanno solo quel lavoro lì, sui social, però dopo li vedi andare in moto e ti scappa da ridere. Io me la giro ancora”.
Come un influencer delle moto.
"C’è mio figlio che segue quelle novità, quei personaggi. Ma quando gli ho chiesto che risultati fanno in gara mi ha detto che non vincono mai niente. Nel mio caso siamo lì, però con il mezzo giusto riesco a fare anche le mie belle posizioni. Poi quest’anno c’era anche il discorso dello sviluppo e mi sono dedicato a quello”.
Sei un po’ il Giorgio Moroder del motociclismo. Ha dato tutto nei suoi anni d’oro e poi con i Daft Punk è tornato a suonare in giro per il mondo. Oggi, a 66 anni, sei a Cortina a presentare una serata.
“È questo il bello, e poi a tutte le feste e agli eventi che sto facendo non c’è nessuno che mi dice smettila. Tutti a dirmi bravo, continua. Io faccio i conti anche col mio fisico, mi alleno e mi tengo un po’ come se fossi un atleta. Vedere che ce la faccio mi fa stare anche meglio, è quasi più salutare rispetto a fermarsi peggiorando la situazione”.
Che effetto ti ha fatto Danilo Petrucci?
“Ho cercato anche di dargli dei consigli, mi sono anche confrontato con altri ed è normalissimo dirgli di andare un po’ più piano, di stare attento”.
Non ti ha ascoltato molto però.
“No, ma ha fatto bene. Però gli è andata bene che è riuscito a chiudere senza incidenti seri, perché poteva succedere. Questo è quello che penso. Ma ha alzato il livello per tutti ed ha fatto tornare la gente a parlare di Dakar. È anche stato aiutato dal nuovo regolamento, perché il secondo giorno per un fusibile - come è successo a tanti negli anni - si sarebbe dovuto ritirare. Lui ha giocato il jolly, ma quando ha vinto la tappa è stato un grande”.
Hai visto la faccia di Joan Barreda, di Toby Price - per dirne un paio - al bivacco?
“Tutti pensano la stessa cosa: lascia che vada, è bravissimo ma prima o poi gli succede qualcosa. Ha fatto qualche caduta, ma neanche troppo grave. Poi ha anche avuto un team ufficiale”.
Però ha avuto diversi problemi con la moto che alla squadra che puntava alla vittoria non sono capitati.
“Lì mi sembra che abbia fatto male a parlare così dei meccanici con cui lavora, forse è l’istinto del pilota della MotoGP. Ma nelle mie edizioni ho preferito dire che stavo male io piuttosto che dare la colpa alla moto che oggettivamente era da buttare”.
Mi ricordo, quando hai raccontato che avevi mal di pancia.
“E poi mi hanno detto che ero troppo vecchio e che mi avrebbero cambiato. Però ho fatto quella scelta, quando ho parlato con Petrucci l’ho visto molto carico e forse è così che si fa per trovare i risultati nella velocità. Però in MotoGP hai degli spazi di fuga e una sicurezza che alla Dakar non c’è. È un grosso rischio e gli è andata bene, ma ha fatto bene a tutti. Una vittoria di tappa non capitava dai tempi di Meoni, capito? È stato eccezionale e non vorrei dirgli troppo di stare attento per non portargli male”.
Se l’anno prossimo decidesse di correre ancora dove pensi che potrebbe arrivare?
“Sempre per esperienza personale: al mio primo anno ero in testa, ho chiuso terzo perché ero senza assistenza. L’anno dopo sono partito carico, convinto di mangiarli tutti, e ho fatto di quei tonfi… sono arrivato decimo, il peggior risultato in quei sei anni. Poi ho cominciato a calmarmi e sono andato più forte”.
Ma quando torni a casa cosa ti dicono?
“Ormai sono abituati, facciamo anche festa prima di partire, magari ad altri piloti la fanno dopo il risultato. Magari c’è apprensione, un po’ di paura, ma cerco comunque di non creare preoccupazioni. Non vado come a quei tempi”.
Forse la cosa più bella delle tue Dakar di oggi è che lo fai per lavoro, senza compromessi. Come un uomo che esce per andare a caccia.
“Io non ho un’attività a casa da seguire, ero meccanico e aggiustavo le moto. Sono ancora lì a fare quello, ma le moto non si vendono più. Anche per questo ho scelto di continuare a fare il pilota”.
Nessuno aveva mai fatto il pilota professionista, pagato per correre, alla tua età.
“Io non l’avrei mai pensato, e ho chiesto il numero 66 sulla moto per ricordarmelo bene. Non mi tiro indietro per il prossimo anno, ma bisogna ricordarsi che l’età c’è. Sfrutto l’esperienza, tecnicamente riesco a dare bei risultati… E che bella soddisfazione sviluppare una moto. Non sarà così ma potrebbero scrivere anche Fantic modello Franco Picco”.
Lanciamo un appello per una Fantic Franco Picco Limited Edition!
“Magari, scrivilo! Io tengo duro, lavoro col cervello collegato alla testa e programmo tutto nel dettaglio”.
Ti capita di stupire i professionisti? Nel senso, saranno in molti a farti i complimenti ma dev’essere tutt’altra cosa quando gli arrivi davanti.
“Eh, nel prologo mi hanno passato tutti, ma poi quando c’è da navigare mi stanno dietro. Per non parlare delle dune, ci sono certi terreni… a volte mi fermo quasi ad aspettare che se ne vadano per correre da solo. Anche Edi Orioli ha vinto così, di navigazione e astuzia: aspettava che tutti se ne fossero andati dalla parte sbagliata per poi partire per la strada giusta che non aveva capito nessuno”.
Lo stiamo tenendo fuori dall'albergo da troppo tempo, decidiamo di andare a mangiare. Picco ha raccontato tutto con un sorriso, felice di come siano andate le cose. Forse - anzi, sicuramente - avrebbe voluto vincere di più, ma non è un nostalgico perché non ha mai smesso di fare il pilota. In tutte le foto pubblicate sui suoi profili, anche quelle scattate dopo una tappa massacrante, sorride. E non è una scelta di marketing.