Non si prendono più a cazzotti nel retropodio, non si aspettano in accappatoio per urlarsi in faccia, non si lasciano andare a manovre da fuori di testa solo per il gusto di battersi. E hanno pure tanti di quei controlli elettronici che ormai guidare la MotoGP sembra pure fin troppo facile (sembra, ndr). Per un bel po’ di tempo abbiamo usato tutto questo per convincerci che era meglio prima, schiavi di un passatismo che da una parte è umano e sacrosanto, ma dall’altra ha finito per far guardare le corse – queste nuove corse – con il filtro delle negatività. Come un eterno “virgola ma” a commento di ogni santo fine settimana, nel nome di quelli che nel frattempo sono diventati vecchi o di quelli che semplicemente hanno scelto di non correre più. Tanto che in molti sono persino arrivati a affermare che non ha senso ridurre la velocità o limitare la potenza, perché le uniche emozioni vere, ormai, arrivavano dai dati registrati in pista.
Poi è arrivata Barcellona e pure una gran bella lezione. E cioè che gli abbracci, per giocare con lettere e parole, contano più degli abbassatori. Che le carezze contano più delle carene. E che se i piloti vanno a 400 km/h o a 300 km/h l’occhio umano neanche se l’accorge. Non è la premessa per fare il pippone sulla sicurezza, sulla necessità di darsi una regolata o quelle robe lì. E’ solo una considerazione sul fatto che alla fine di tutto ciò che ci piace da matti delle corse saranno sempre e solo i picchi emotivi, le intensità umane. Anzi, Barcellona ci ha insegnato proprio che l’ingrediente indispensabile e fondamentale è l’umanità. Lo era prima, quando i piloti erano fatti di sangue sugli occhi e scazzottata facile e lo è adesso che, invece, l’umanità si esprime in maniera opposta: volendosi bene. Con i buoni sentimenti che, però, troppo spesso sono stati fatti passare come un problema, invece che come un valore aggiunto.
Ecco, il GP di Barcellona ci ha spiegato, passando attraverso una grande paura e immagini che hanno gelato il sangue, che tutta questa umanità che c’è adesso è proprio il valore aggiunto. E probabilmente è il valore da cui sta rifiorendo la MotoGP, tornando a ritrovare pubblico, ascoltatori e appassionati. Cosa ci ricorderemo di Barcellona? Sì ok la tecnica, ok la strisciata di Martin che piegava fino a toccare pure il casco sull’asfalto. Sì, ok anche il sorpasso di Espargarò su Bagnaia il sabato e ancora di più quello della domenica sul compagno di squadra Maverick Vinales. Ma più di tutti resteranno nella memoria di tutti noi altri gesti. Come Davide Tardozzi che tiene tra le mani il viso di Domizia, la fidanzata di Pecco, mentre aspettava con occhi altrettanto sconvolti una qualche cazzo di buona notizia dal centro medico. O ancora gli occhi di Brad Binder, incapaci di tenere a bada le lacrime, mentre andava ripetendo che era appena stato protagonista del suo incubo: passare sopra a un pilota. Pur sapendo di non avere colpe. Finire la gara onorando lo sport, mettercela tutta onorando il lavoro di tutta una squadra, e poi scoppiare in lacrime, onorando l’uomo che sei nel secondo successivo a quello in cui hai potuto smettere di essere pilota. Sono queste le cose che restano e – viene da ripeterlo – chi se ne frega se domani o tra due anni le moto andranno un po’ meno veloci?
Nessuna velocità regalerà mai i picchi emotivi di cui è capace l’umanità, intesa come capacità di esprimersi come esseri umani, con tutte le debolezze possibili, con tutte le grandezze possibili. Anche dopo essersele date. Come hanno fatto, ad esempio, Aleix Espargarò (uno che non avrà vinto tantissimo, ma che in fatto di umanità è pluricampione del mondo da sempre) e Maverick Vinales. Sono compagni di squadra e non la vedono sempre alla stessa maniera. Si sono giocati la vittoria, con il giovane che ha ceduto a quello più anziano pure dopo una manovra quasi al limite. Poi, però, arrivati al traguardo, si sono abbracciati di potenza. Scambiandosi persino le motociclette e portando l’uno la moto dell’altro al parco chiuso. Quasi a voler ribadire che si può essere una cosa sola anche quando si gioca a battersi. Non con due moto qualsiasi, ma con due uguali che tra l’altro insieme al traguardo, prime sotto la bandiera a scacchi, non c’erano neanche mai arrivate. E generando un altro abbraccio ancora più grande dentro il box di Aprilia, tra Massimo Rivola e tutti quelli che hanno messo la firma su un traguardo che sembrava un miracolo e invece è una conquista di umanità. Un’umanità tale che poi ha portato gli stessi protagonisti della domenica perfetta di Aprilia a far quasi passare in secondo piano quello che avevano appena fatto, preferendo onorare, ancora prima del successo, questo modo nuovo (e che deve cominciare a piacerci) di stare nelle corse: dedicando a Pecco Bagnaia (sulle cui condizioni si sapeva ancora molto poco) e Enea Bastianini la storica vittoria di Barcellona. Dimostrando, ancora una volta, che sono gli uomini a fare le corse e che se un giorno, in nome della sicurezza o di qualsiasi altra ragione, dovessero togliere un po’ di velocità o di potenza alle moto, dovrebbe fregarcene meno di niente. Il vero spettacolo – ciò che resterà – sta in altro. Ricordandoci qualcosa che Sant’Agostino aveva capito già un bel po’ di tempo fa: “E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne e i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi”.